Giancarlo Vallone,
Andrea d’Isernia giurista dei Re angioini di Napoli
Texte intégral
Questo saggio è dedicato a Luciana D’Andrea, di Isernia.
1. Nuova fortuna critica dell’opera di Andrea d’Isernia
1Andrea da Isernia cioè, s’intende, le sue opere, sono oggetto di attenzione ripetuta, più che costante, per la percezione anche solo istintiva della sua importanza, per il suo sapere giuridico che si distende come terreno nutritivo di ogni possibile comprensione legata alla civile convivenza e all’ ordine sociale del tempo storico che fu suo più, forse, che di chiunque altro giurista e altissimo officiale d’allora: nella sua capacità di viverlo, nella sua capacità di tramandarlo. È il tempo della prima stagione angioina nel Regno meridionale d’Italia, che aveva alle sue spalle la figura del gran Federico, impareggiabile e invìsa a chiunque provasse a misurarsi, perché il primo Carlo «discutiebat bene ius suum», ricorda Isernia, ma Federico diceva il diritto di ciascuno. I più grandi – Gierke, i Carlyle, costantemente Kantorowicz- ad Andrea da Isernia hanno rivolto domande complesse ottenendo la risposta, starei per dire dell’evo, quella che nella parola rivela quel mondo; e forse nessun’altro quanto lui lega così in profondità la ragione di Dio e il potere sugli uomini, come ci hanno insegnato, in Italia, Francesco Calasso e Ennio Cortese. Ora la vicenda biografica d’Isernia dovrebbe indubbiamente sapersi arricchire di questa potenza spirituale, di questo suo ‘genio’ misurato sull’attrazione ininterrotta dei più attenti lettori- non è forse questo il genio di un’opera? – e tutto ciò vale nonostante che le sue opere a stampa, intendo le due maggiori e in particolare quella feudistica, ci siano giunte in precarie condizioni d’intellegibilità. Anche così esse sono portatrici di avvertimenti fondamentali; ad esempio il fatto che Isernia nell’opera grande, commentando i Libri feudorum, indichi sempre quando elabora concetti o discute de iure Regni, e cioè indichi il suo discostarsi dalla ben diversa disciplina feudistica dei Libri in questione, che pretendono invece argomentazioni de iure communi feudorum, ebbene questo è un importante indirizzo per gli attuali studiosi. Voglio allora ripeterlo con chiarezza, per evitare uno degli equivoci più frequenti e più inavvertiti e gravi: nel Regno la presenza della Monarchia ha da subito profilato un ordinamento feudale del tutto particolare; e cioè profondamente diverso da quello definito dai Libri feudorum. Perciò, è subito evidente ai feudisti stessi che il feudo meridionale non si può interpretare de iure communi feudorum, e lo stesso Isernia, lo ripeto, sente fortemente la necessità di dichiarare quando ragiona de iure proprio Regni; anzi è opportuno ricordare che in diversi punti dell’ opera egli ritiene che le disposizioni dei Libri feudorum nel Regno non possono essere osservate come leges (benché contengano alcune leges imperiali), ma solo in quanto ‘rationabiles’1; e non è già questa redistribuzione della forza delle fonti un chiaro indirizzo per la sana ermeneutica? C’è di più: tutto questo corrisponde ad una esigenza naturale e propria di ogni monarchia e di ogni giurista che ne vive l’ordine, e quindi si giunge alle dichiarazioni consapevoli avanzate nel tempo da storici consapevoli come il Pecchia o, ch’è di più, dai feudisti italici (ad es. il Camerario, o il cardinal de Luca), o francesi, o tedeschi, alcuni dei quali, ad esempio rimproverano quei giuristi «qui in tot iuris feudalis voluminibus iura Germanica et particularia cum Romanis et Longobardicis [i Libri feudorum] confundunt, ac tantum non coelo cum planetis hos cum syderibus miscent ac mutant». Ci si crederebbe? I non molti studi che usano la feudistica ‘napoletana’ (ch’è di suo impiantata diversamente anche da quella siciliana) e in particolare usano l’Isernia, son quasi sempre prodighi d’indifferenza verso queste cautele, con largo prodotto di amenità2. Questo è forse da notare; ma che significa usare le opere di Andrea d’Isernia? in un certo ambito di studi, quello, per dire in largo, sull’assetto istituzionale nel Regno angioino, si tende vistosamente a evitare un confronto con un testo così impegnativo, o per antico pregiudizio antigiuridico, nel migliore dei casi di conio postcrociano, o per compulsiva esigenza di accreditarsi senza sforzo in una estesa platea di fruitori, come se la verità si producesse necessariamente per condivisione; conosco pure, e non cambia molto, citazioni occasionali d’Isernia, impuntate come fiori all’occhiello d’una prosa evanescente e serena, conosco sue citazioni di seconda e terza mano, e sue incomprensioni a volte dolose. Ma questa è letteratura; e se parliamo di miseria dello storicismo, dobbiamo pur sempre decidere in quale direzione indicarla. Isernia resta comunque un autore imprescindibile per quanti, in certi contesti storiografici, o fuori di essi, pensano la verità come invece frutto del dubbio metodico e della critica dei processi interpretativi. Indico in lui l’autore principale, o quanto meno tra i principali, di una costruzione dotta legata all’esame dell’ordine sociale sia pure soltanto dell’età angioina e alle novità da questa introdotte. Ordine sociale è creazione ancipite: è potere ed è anche vita collettiva, ha a che fare, non potrebbe essere diversamente, con una sua natura cogente, e tuttavia questa non può davvero imporsi ciecamente, e incontra piuttosto convinzioni partecipative che emergono, e si tenta di far emergere, dalle coscienze di coloro che restano dei sottoposti. In fondo, dice il moralista, anche le monarchie assolute sono state guidate da una specie di suffragio universale. Spetta a J.-P. Boyer il merito di aver interrogato il discorso giuridico di Isernia, e di altri, anche non giuristi, al di là del punto, per così dire, normativo, e del tratto d’autorità3, al fine di recingere anche le logiche dell’osservanza e le condizioni suasorie della disponibilità ad obbedire. Interviene così l’arte del sermone, il potere evocativo della parola, per costituire l’unità di sentimento delle coscienze. Sarà così per secoli: ancora per Vico è l’eloquenza che sollecita il popolo plebeo all’unità politica. Ecco la costruzione serrata e quasi geometrica: la ragione di Dio si svela ordine nel mondo, e l’ordine è diritto ch’è detto dal Re ed è officiato dai giuristi con lui quasi come unica ‘persona’ intorno alla quale si dispone l’accordo delle fedeltà. Queste si mostrano dall’orlo delle parti diverse dell’unico corpo sociale; e qui è l’ingegno: le parti hanno sola unità d’ordine ha detto Tommaso, perché sono necessariamente diverse, e l’ordine stesso per i giuristi è gerarchia. Allora è la parola, quella ispirata o detta come da Dio, che unisce verso l’alto governando le diversità e guidando all’accordo delle coscienze4. Non potrebbe esserci modo migliore per descrivere il fascio degli istinti e delle volontà limato e reso uniforme per accogliere, consenziente, l’altro volto dell’unità e dell’ordine, quello che senza blandizie dà comando e impone: sono i poteri, ma, si badi, nel loro assetto, senza i quali non c’è dimensione politica, non c’è unità possibile. Sarebbe facile dimostrare l’opera possente dei giuristi, anche soltanto quelli d’età angioina, in quest’altra costruzione, più manifesta e quasi fisica, nonostante le incomprensioni agitate, di continuo, dal torvo pullulare degli anacronismi. Ed anche può sembrare, qui, arido, dopo aver esaminato la forza libera ed artefice della parola, affermare ch’è necessaria, per l’analisi dei nessi tra poteri, la comprensione minuta delle rigide formule di concessione, estremamente complesse, presenti nei privilegi d’investitura feudale e dove unica guida è l’Isernia5. Non può essere dimenticato: la riconosciuta importanza degli scritti del giurista, nasce anche dal fatto di essere lavorati in contatto diretto con la cancelleria e con gli offici centrali dell'amministrazione regia, e con i materiali della loro attività. È lui che elabora a suo modo nella grande opera feudale la dottrina della cohaerentia territorio iurisdictionis, che è assai più di una teorica, perché è dottrina, nasce per la pratica, nasce dalla realtà di uno strapotere feudale sorto dal Vespro, e vuole razionalizzarlo, ed è unica per la sua complessità e articolazione nella feudistica continentale. È questo il tratto fondamentale della costruzione intellettuale di Isernia, e lui lo applica metodicamente anche nella interpretazione delle leggi federiciane che nascevano da opposte intenzioni. Anzi, è opportuno notare che proprio l’Isernia è attendibilissimo testimone della mutazione (che non pochi oggi negano) avvenuta col Vespro, e dice «stricte servabantur istae constitutiones ante rebellionem Siciliae. Et ideo sic exposita est, ut patet in glossa. Post fuit constitutio Regis Caroli II in planitie sancti Martini»6. Al tempo stesso è lui, il grande interprete della nuova dimensione feudale, così visceralmente legato alla teoria dominicale del potere, che tenta un raccordo unitario, se non centralistico, con il vertice monarchico attraverso la creazione dottrinale, questa volta su base federiciana, del suffeudo quaternato7. Matteo d’Afflitto sintetizzerà a suo modo il pensiero del predecessore dicendo «baro non est monarca in baronia»; Andrea aveva semplicemente detto, usando il Verbo, «stella a stella differt in claritate». Sono esami di pensiero con proiezione direi nuova od anche nuovissima, che si legano bene alla proposta di misurare l’istituto feudale nell’idea generale di costituzione medievale – intesa come unità politica-, animata dalla nervatura rivelatrice di terra e potere8.
2. Metabiografia d’Isernia
2Per una serie di ragioni, alcune delle quali legate alla difficoltà stessa e latitudine tematica delle opere, intese anche come complessità del frutto che, a volte, se n’è tratto, la sinergia tra i dati ‘materiali’ della vita d’Isernia e lo slancio vitale che si sprigiona da quanto di suo leggiamo, qui appena accennato, non si è del tutto creata; non può ancora crearsi. Così spesso si sono proposti cenni biografici di Andrea, come ho fatto anch’io9, ma legati soprattutto al profilo, per così dire esistenziale o materiale della sua vita, mentre una vita forse merita di essere valutata per quanto d’immateriale ha saputo creare. Tutti questi cenni sono costantemente in debito con un’opera, quella antica del Palumbo10, non solo insuperata, ma insuperabile, appunto in quel che di quell’opera è biografia, perché l’autore l’ha tessuta con spogli ormai impossibili dai perduti Registri angioini di Napoli, per i quali egli, prima di ricercare gli originali in archivio, procedeva usando anzitutto – ed era usuale (lo fece ad es. K. Hopf)- i regesti secenteschi di quei documenti redatti dal grande erudito Carlo de Lellis, a lungo in proprietà di Camillo Minieri Riccio, e posseduti (dal 1882) da Angelo Broccoli, che li aveva messi a sua disposizione (poi, dal 1927, nell’Archivio di Stato di Napoli, e ora solo in parte sopravvissuti). Intendiamoci, apporti documentali sulla vita e l’opera del giurista ci sono stati anche dopo quest’opera, per esempio grazie al Monti11, ma non solo a lui; e potrei dire che sono diversi gli scritti biografici, anche brevi, che hanno tentato di cogliere profili di pensiero meno evidenti del giurista12. Stiamo però ai fatti della vita e delle opere. Nel secondo Cinquecento il giurista Camillo Salerno che aveva, come molti giuristi, pratica d’archivi per esigenze professionali e per passione, assegna ad Andrea da Isernia un cognome ‘de Rampinis’ da scritture ‘eius manus subscriptae’ e con riscontri documentali 13. Intendiamoci, una famiglia ‘de Rampinis’ o ‘Rampini’ in antico è esistita certamente in Isernia e conosciamo nel dicembre 1221 un «Rampinus… iudex Ysernie»14. Comunque il cognome fu accettato per Andrea, nonostante l’autorevole avvertimento contrario del Ciarlanti, e lo stesso Minieri Riccio ad un certo punto ne ha dato conferma apparentemente documentale, ma frutto, probabilmente, della passiva recezione della tradizione e di qualche azzardo congetturale15. Proprio il Palumbo metterà in dubbio questa tradizione con un convincente confronto tra documenti16, assecondato in questo prudente scetticismo dai successivi studiosi. Con ciò l’Isernia emerge alla storia per così dire nudo e crudo, senza che se ne conosca il cognome, la paternità e la famiglia. Sappiamo soltanto che aveva una sorella di nome ‘Finadella’ sposata in Aversa17. Pare invece certa la sua nascita in Isernia, e ne avrebbe tratto, secondo l’uso, denominazione. Ha la sua importanza notare che nel 1567 il Salerno, nella stessa pagina indicata, dichiara di aver visto in Isernia lo stemma del giurista (un compasso aperto con tre rose alle tre estremità), esposto «in eius domo Iserniae…prope ecclesiam Annuntiatae»18. L’antiquaria, che culmina nell’informato Giustiniani (con spogli anche dai giuristi antichi che citano Isernia), ha nel Ciarlanti il più attento autore, con uso costante dei documenti, indicati con precisione, e dunque con larga credibilità, anche se il riscontro di questa documentazione, possibile ai tempi del Palumbo, che non dà chiaramente conto di dipendere dal Ciarlanti, oggi lascia spazio soltanto a ipotesi, salvo il caso fortuito, ma effettivo, come si vedrà, di documenti, editi o a volte inediti, sfuggiti ai ricercatori. Una di queste ipotesi riguarda la data della sua nascita che è ignota, ma sappiamo che Andrea da Isernia ha servito già re Carlo I (morto il 7 gennaio 1285) ed ha una figlia, Letizia, in età maritale nel 129519. Soprattutto questa informazione a me sembra produttiva di esiti, perché ad ipotizzare che Letizia sia nata intermedia tra i molti figli (sei o sette20) di Andrea e di sua moglie, Berlesca Roccafoglia, e sia sposata o promessa in moglie in assai giovane età, come s’usava, è possibile immaginare la data di nascita di Andrea negli anni subito precedenti o subito successivi la morte di Federico II. Per il resto non abbiamo prova, ed è ben grave, del luogo dei suoi studi. Laspeyres e Calasso ipotizzano la sua formazione nello Studio napoletano, e sarà stato certamente così; e ciò non può che essere avvenuto nella primissima età angioina, a tener conto, intanto, della sua possibile data di nascita e trascurando la vita incerta dello Studio nell’ultimo decennio della dinastia sveva. La prima carica nota d’Isernia è quella di Avvocato fiscale della Magna Curia del Maestro Giustiziere (l’istituzione che, col tempo diverrà la Gran Corte della Vicaria); è notizia che dobbiamo al Minieri Riccio, e offerta, per suo tramite, da un registro perduto della Regia Zecca: «Andrea d’Isernia nel 13 giugno 14.a indizione [1286?] era avvocato fiscale. Sua moglie chiamavasi Burlesca, e sua sorella Finadella»21. Il fatto che quest’officio pubblico preceda gli altri noti ricoperti dall’Isernia, non è ascrivibile a un divieto di cumulo tra cariche, come qualche autore sembra ritenere; un tale divieto matura assai lentamente e sarà un prodotto della modernità incipiente. Anzi, una delle pochissime tracce d’una sua attività privata di avvocato («obtinui quandam quaestionem»), lo vede impegnato «in Curia magistri Iustitiari» a difesa d’una vedova dotata, parrebbe, del privilegio di legittimazione attiva22: non sembra un incarico fiscale, cioè a difesa dell’interesse del publicum, ma piuttosto una difesa privata; e per quanto sia impossibile stabilire se Andrea fosse già, al contempo, anche giudice in quella corte (se non anche avvocato fiscale), le due attività non erano incompatibili. In ogni caso in questa Curia o Corte sappiamo che egli è giudice nell’anno di II indizione (1settembre 1288-31 agosto 1289)23, e forse proprio nel 1289, e prosegue probabilmente ad esserlo fino al 18 maggio 1294, ma non sembra più esserlo l’otto settembre di quell’anno. Sappiamo che occasionalmente (ad es. nel 1299, o forse 1298) è poi giudice delegato in fase di revisione avverso sentenze d’appello della Magna Curia24, ma ignoriamo quale ruolo o carica rivestisse nell’occasione. Nei primi mesi del 1290 (non prima) è nominato ‘iuris civilis professor’, ed è attestato nello Studio napoletano dall’ aprile 1290 al novembre 1315 secondo l’indicazione del Monti 25; è l’impegno d’Isernia del quale vorremmo sapere di più, ed invece ne sappiamo meno o nulla. Ignoriamo corsi, lecturae romanistiche, preferenze, che certo ci saranno state e potremmo solo avanzare qualche congettura basandoci sulle opere minori a stampa o manoscritte, o anche su quelle perdute, così incerte, ed è meglio evitarlo. Ora proprio al 1290, e in particolare al 10 ottobre, rimonta un evento di particolare significato nell’interpretazione della vita di Isernia, ma che più in generale assume rilievo per la comprensione della emersione sociale e del ruolo sociale dei grandi officiali di Curia. Il reggente Roberto d’Artois promette ad Andrea una rendita di 30 once d’oro annue su beni di regia Curia ancora da individuare, e, si badi, questi beni saranno dati in feudo perché Isernia, per le 30 once, dovrà prestare un servitium annuo di un milite e mezzo; questo impegno sarà parzialmente assolto da Carlo II che il 17.I. 1296 individua nel «castro Croce et Cunicolo» il feudo per Andrea, con rendita stimata a 20 once e il servitium da prestare fissato a 1 milite26. Inizia qui, nella forma stessa di una ricompensa per i servizi, evidentemente graditi, prestati a Carlo I e a Carlo II, l’accesso dell’alto magistrato alla feudalità. I due ceti, così diversi per status giuridico hanno dei transiti interni di collegamento, e lo si sapeva bene. Ora conta notare che il grande giurista inizia dal 1290, e durerà per vent’anni, una serie di acquisti feudali (la conferma dell’ultimo è al 26.V.1309), in genere nell’area molisana27, che rivela una serie di scelte di fondo per sé e soprattutto per i figli, alcuni dei quali seguiranno la via degli offici e dello Studio, ma che, evidentemente, sono orientati al ceto feudale e alla milizia, con una politica di parentaggio in particolare con la grande dinastia franca dei di Sangro28. È un torno di tempo che porta a frutto, e lo si vede, le competenze del giurista in un contesto alto delle relazioni di Curia (termine, si sa, assai lato che qui esprime il vertice degli offici regi). Andrea da Isernia raggiunge così l’altissima carica di Viceprotonotario; ma in che anno? Il Palumbo indica il giorno 8 settembre del 1294, ma la data è errata, e ha prodotto effetti dannosi nella storiografia. Piuttosto, è meglio seguire ancora il Minieri Riccio che offre una sequela di informazioni qui necessaria. Il 7.VI.1290 Carlo II crea Protonotario del Regno Bartolomeo da Capua; anni dopo, il 15.VIII.1294, evidentemente per la gravosità dell’impegno, il Re crea anche la carica di Viceprotonotario, retribuita con 12 tarini giornalieri più otto once d’oro annue per gli abiti; poco dopo al 21.VIII, Bartolomeo da Capua è nominato Protonotario a vita con facoltà di scegliersi due luogotenenti, ed egli indica Andrea Acconzaioco e Andrea da Isernia «i quali nello stesso dì furono nominati a quell’uffizio col soldo di cento once d’oro annue, oltre otto once di oro per le vesti»29. Credo allora che il documento dell’otto settembre del 1294 indichi soltanto la definizione della retribuzione. In questo atto l’Isernia ha anche la carica di Maestro Razionale, che esercita nella Gran Corte dei Maestri Razionali (poi Regia Camera della Sommaria) e che lo accompagna in tutti i documenti noti di lui, fino all’ultimo del 20 novembre 131530. Non ci s’inganni su nomi ricorrenti: c’è tutto un fermento di relazioni personali e funzionali che possiamo immaginare, ma che sarebbe importante, si capisce, documentare anche nei nomi; ed una traccia c’è. Il gran Giustiziere, ai tempi di Andrea era il famoso Ottone (Eudes) de Toucy, con grandi interessi feudali in Terra d’Otranto (Soleto e Galatina), ma anche e soprattutto nell’area molisana perché sua moglie era Filippa dei conti di Celano, ramo anche questo della stessa grande famiglia dei conti dei Marsi, alla quale appartenevano i di Sangro. Il Gran Giustiziere muore in Francia nei primi mesi del 1297, e il rapporto con Andrea sarà stato certamente molto profondo: sappiamo che gli legò per testamento un giardino in Isernia, che Andrea poi donò alla cappella di S. Andrea apostolo, da lui eretta nella chiesa cattedrale appunto di Isernia31, e che andrà distrutta nel terremoto del 1349. Forse è opportuno notare anche un particolare, che dobbiamo ad una importante ricerca di Domenico Maffei, e che va soppesato con attenzione, prima di ritenerlo irrilevante: il 5 dicembre 1298, a Napoli, il famoso cancelliere del Regno, Pierre de Ferriéres, alla presenza di re Carlo e di molti professori e altissimi officiali, come ad esempio Matteo Filomarino, conferisce il grado dottorale al celebre giurista Iacopo di Belviso32: tra tante personalità spicca l’assenza di Andrea da Isernia e di Bartolomeo da Capua, che se fossero stati presenti, di certo sarebbero stati indicati; Bartolomeo è, si sa, in Sicilia in quei giorni; forse l’Isernia è in Molise33?
3. Andrea d’Isernia e i fraticelli di Clareno
3Risale agli anni del primo Trecento, un episodio esiliato dalle biografie di Andrea più recenti, ma narrato, come fonte prima, proprio nella Historia septem tribulationum Ordinis Minorum (databile al 1323/1325) di Angelo Clareno († 1337)34, che possiamo considerare quasi un testimone di veduta. Si tratta di uno dei casi della persecuzione dei ‘pauperes eremitae viventes’, legati al Clareno, e di residenza celestiniana, ma è caso di difficile datazione, comunque da fissare tra la morte di Benedetto XI († 7.VI.1304) e quella di fra Liberato (Pietro da Macerata: † 26.VII.1307), e forse più in prossimità della prima data. Odiati dai Francescani Minori e in genere dagli Ordini mendicanti, questi fraticelli rigoristi, stanziati in vari luoghi e, per un gruppo, in Molise, sono riuniti in Frosolone dall’inquisitore domenicano Tommaso d’Aversa, di nomina papale35, che li accusa d’eresia e scrive al Re (Carlo II) di avere in custodia «quadraginta hereticos de secta Dulcini, natione Lombardos». O che il Re girasse all’Isernia questa lettera, com’è probabile, o che al giurista fosse recapitata (magari per incarico regio) da due fraticelli, come dice Clareno, «dominus Andreas de Sernio», dopo averla letta, chiede loro: «ma tra voi c’è qualche frate lombardo?»; «uno solo, aggiunto per caso al gruppo» gli rispondono. Isernia allora scrive all’inquisitore, e lo esorta a praticare, nell’adempimento del suo officio, la verità «sine qua…nec humana nec divina (cioè ‘ecclesiatica’) iudicia iuste fiunt»36. Quest’ultima frase, che risponde all’autentico pensiero iserniano, chiude la vivissima parentesi narrativa, che ci conserva- in modo irripetibile, e forse vero- l’esprit del giurista, quale che sia stato l’esito del suo intervento37. Una tale continuità e complessità nel mestiere di giurista, svolto nei supremi apparati giudiziali del Regno38 e nell’insegnamento (contemporaneamente, come si vedrà, alla produzione letteraria), con la crescita costante d’influenza dal 1286 al 1296, esprime una sintonia e un legame profondo di Andrea da Isernia con la dinastia angioina, ed ha un momento di grande significato, e di conferma, l’undici luglio del 1309, in un documento di un officiale regio (in ottemperanza di un precedente ordine regio) da leggere con attenzione, e da utilizzare diversamente da quanto fin qui fatto, dal quale però deduciamo la volontà del nuovo Re (Roberto, anche se non ancora consacrato) di averlo con lui per sostenere dinanzi al pontefice Clemente V, in Avignone, come già aveva fatto, spianando la strada, Bartolomeo da Capua, le sue ragioni per il trono napoletano, contestate dal ramo ungherese degli Angioini39. Veramente possiamo mettere in relazione a questo viaggio tutta una serie di questioni sospese che sia l’Isernia che Bartolomeo da Capua vogliono risolvere, e risolvono, nei mesi precedenti la partenza: è notevole, ad esempio che Roberto affidi appunto all’Isernia e al ben noto Giovanni Pipino, entrambi maestri razionali, la risoluzione in via sommaria (‘sine figura iudicii’) di una questione feudale di Bartolomeo40. È ben possibile allora, data appunto la previsione del lungo viaggio, che Andrea avesse richiesto e ottenuto (al 5.VI.1309) dal Re il privilegio, piuttosto raro, di dividere i suoi beni feudali tra i figli41 che il Calasso intende come riprova, e forse lo è, di un suo ‘senso moderno di giustizia’. Si è pensato, sempre in forza di questo importante documento dell’undici luglio, che egli fosse partito ‘in comitiva’ col Re; ed è ben probabile, ma la vicenda va ricostruita diversamente. Prima della partenza, Andrea richiede il pagamento di certe sue retribuzioni dalla Corona, anzi parrebbe aver dichiarato di non poter partire senza quel pagamento. Il Re vuole averlo con sé, ed anzi deve averlo con sé, dato che Bartolomeo da Capua, che l’ha preceduto in Provenza, deve far rientro a Napoli (vi era già al primo luglio), proprio per supplire l’assenza di Roberto e la giovinezza del vicario, Carlo, duca di Calabria42. E Roberto dispone allora, in data imprecisata, che una somma di 30 once d’oro sia accantonata per l’Isernia su un donativo imposto alla Terra di Bari, e ne scrive al giustiziere provinciale; in seguito un maestro razionale ne dà conto da Melfi, appunto a 11 luglio, con il documento già proposto. Però in che data Roberto dà l’ordine? certo prima della partenza, direi pochi giorni prima, o forse pochi giorni dopo, quel 7.VI.1309, data di un ordine analogo di pagamento, sempre per Andrea, edito dal Palumbo. Così «tra il 10 e il 12 giugno la corte lasciava la capitale…» e il 13 il Re era a Gaeta e il 27 luglio ad Avignone43. Andrea d’Isernia era certamente con lui, se una così specifica promessa di pagamento l’avesse mai soddisfatto. Noto però che in un altro documento da Marsiglia, del 18.VII. 1309, egli non è presente tra i testimoni (c’è invece il celebre Bartolomeo Siginolfo)44. È comunque probabile che Andrea abbia assistito in presenza all’incoronazione in Avignone di Roberto, il 3 agosto 1309, ed alcuni lo sostengono apertamente45. In realtà conosco riscontri della sua effettiva presenza in Provenza solo per mesi successivi. In particolare ad Aix, il 3 dicembre 1309, è testimone, con altri meridionali, tra i quali ancora Giovanni Pipino, all’omaggio prestato a Roberto dal vescovo di Digne e da altri vescovi e prelati46, ed ancora il 19 dicembre 1309 per l’omaggio prestato a Roberto dai ‘nobiles’ del distretto di Digne47. Di nuovo, al 28 luglio del 1310, è testimone, in Alba, al trattato di Roberto con il Comune di Asti48. Ovviamente, dato l’intertempo di sette mesi, dal dicembre 1309 al luglio 1310, di nuovo non è certo che l’Isernia sia rimasto ininterrottamente tra Provenza e Piemonte; in fondo, da Nizza o da Marsiglia, fino a Napoli si giungeva in sei o sette giorni di navigazione. Nemmeno è certo che Andrea si trattenesse dopo il luglio del 1310 con il Re. Sappiamo però che la permanenza del re e della regina Sancia in Provenza durò dal giugno 1309 al novembre 1310; e prima di entrare in Napoli, il Re, al 20 novembre 1310, si fermò in Isernia per sospetto dei Siginolfo, e in particolare di Bartolomeo49; ma perché fermarsi ad Isernia, sia pure per pochi giorni? Come non pensare che Andrea fosse con lui, e che forse l’ospitasse, ma questo possiamo solo immaginarlo, nella sua casa, la «domus domini Andreae» che, per certo, doveva essere tra le più notevoli della città? Ben poco possiamo aggiungere sul giurista: un documento del 4.IV.1312, per la salvaguardia di suoi interessi feudali, e, soprattutto, uno del 20.XI.1315 dov’egli interviene nell’interesse dei suoi nipoti, nati da suo figlio Roberto, forse il primogenito, ferito a morte nella battaglia di Montecatini (29.VIII.1315). Ha la sua importanza notare un breve scritto giuridico, che poi indicherò, di Andrea su un suo figlio premorto, che se fosse Roberto, il che non è affatto certo, lo rivelerebbe ancora di sana costituzione mentale, quasi che il diritto e lo studio gli fosse presidio dal dolore, come avviene. In questo scritto c’è forse una delle pochissime tracce a me note d’un suo lavoro d’avvocato. Ma, dopo poco, la morte venne, in data che non conosciamo con estrema esattezza. Il Ciarlanti afferma che morì (o forse ch’era già morto) a 5 luglio 1316, ma dice pure «che morì l’anno 1316…o verso il fine dell’anno precedente»50. Per il Palumbo la sua morte va posta dopo il 20 novembre 1315 e prima del 24 ottobre 1316, estremi ricavati da due documenti pubblicati da lui51; il Monti restringe quest’arco, affermando che Andrea d’Isernia sarebbe morto «prima dell’ottobre 1316» (a partire dal 20.XI.1315) in base a un registro angioino invece perduto, e forse è prudente attenersi a questa datazione52.
4. Gli scritti
4Sono tratti biografici del tutto coerenti con il pensiero politico del giurista, noto anzitutto per la questione tradizionale del rapporto tra Papato e Regnum Siciliae e che è pienamente medievale e marcatamente guelfo, in piena sintonia con la prima età angioina53, e animato poi da convinzioni legalitarie54 che pongono il potere politico in una necessaria implicazione ontologica, o, altrimenti detto, lo subordinano al rispetto dell’ordine óntico detto dalle leggi. Basterà a questo fine un solo esempio, che invoco anche contro gli anacronismi dilaganti; Andrea dice: «et licet in Papa sit potestas absoluta et ordinata, absolutam exercet praeter iuris ordinem, sed non sine causa, quantumcunque vocatus sit in plenitudinem»55. E il suo pensiero giuridico? Le sue nervature strutturanti? le sue matrici culturali? i suoi autori? Ne sappiamo indubbiamente poco, anche se la bibliografia su Andrea d’Isernia è larga, almeno nel senso che egli viene molto spesso citato, però di frequente in modo passivo, cioè senza approfondimento del suo pensiero, per quanto analisi di questioni particolari ci sono state56. Detto questo tuttavia, mi pare che solo una nervatura strutturante del suo pensiero feudistico sia emersa, anche se non chiaramente recepita57. Dobbiamo perciò limitarci a indicare gli elementi primi della sua elaborazione concettuale. È evidente, nel suo ragionare giuridico, un agile uso delle fonti canonistiche, sia normative che dottrinali (in particolare l’Ostiense). Traspare anche la sua conoscenza non di rado diretta e di uso giuridico delle opere di Tommaso d’Aquino58, che Andrea d’Isernia potrebbe aver conosciuto o almeno visto. Soprattutto è sommamente palpabile la sua conoscenza trainante del diritto romano59, che egli ha in comune in una serie di giuristi anche a lui anteriori, e che in complesso operano la costruzione dottrinale del diritto feudale, da comprendere senza prostrarsi al vecchio involucro binario di ius commune/ius proprium, che, al più, sagoma una gerarchia delle fonti, ma esaminando il processo d’integrazione disciplinare del diritto feudale regio con il diritto feudale comune (ben evidente in tema di successione feudale60) e soprattutto col diritto romano; per fare un esempio: la disciplina meramente feudistica del Liber Augustalis prevede lo homagium del suffeudale al dominus; ma può giurare un vassallo minorenne? La questione è discussa e risolta sulla base del diritto romano, perché quello feudale non provvede61. Tutto questo non basta, tuttavia, a moderare l’importanza che ha su Andrea da Isernia e sul suo pensiero l’esperienza degli alti offici del Regno. Egli stesso, nei preludii o ‘preamboli’ del commento feudistico, dice, come notano tutti, di aver poco tempo per scrivere «curiarum diutius occupatus negotiis», con un chiaro richiamo alla pluralità dei suoi impegni d’officio; ma di quest’ impegno e dell’esperienza delle Corti e degli apparati egli fa tesoro e rende i suoi scritti e in particolare l’opera feudale di estrema importanza anche storiografica, perché conserva frammenti di registri federiciani e di documenti notevoli, spiega formule di privilegi (e questo è un tratto peculiare d’Isernia feudista), e così via62. Tuttavia è alla fine quasi paradossale per chi ha professato così a lungo nello Studio, che le sue opere maggiori, frutto indubbio di grande e meditato sapere, siano anche di evidente proiezione pratica, il che anche significa, secondo l’autorevole opinione di Cortese, che non nascono da lezioni tenute nello Studio63. Sulle opere darò a seguire cenni della datazione, a volte problematica, fermo restando che della biografia il profilo determinante del biografato, o il senso della sua esistenza per noi, oltreché per lui, dovrebbe riguardare, anzitutto, il suo pensiero, se ne ha uno; ed Isernia lo ha, benché per più ragioni, che in parte ho indicato, l’ho in genere, messo tra parentesi o accantonato. Anche limitandomi al semplice profilo esistenziale, devo però premettere che tutte o quasi le notazioni utili alla datazione dei suoi scritti, sono affidate agli scritti stessi, e sono ben poche, perché, purtroppo, Andrea d’Isernia è autore che indulge pochissimo a narrare sé stesso. E per rendere a ciascuno il suo, la fatica di una biografia ex scriptis collecta è stata già puntigliosamente sostenuta, nel secondo Cinquecento, da uno dei maggiori studiosi -intendo anche dal punto di vista ecdotico- e cioè da Leonardo Liparulo64, sul quale, per più ragioni, sarà poi necessario che io torni. Intanto dico, a premessa, che Liparulo s’è per primo posto il problema di fissare con una qualche esattezza il tempo storico della vita d’Isernia, definendo però quest’esattezza, quasi esclusivamente col criterio delle citazioni di Carlo I (citato, secondo lui, 17 volte) o di Carlo II (citato 11 volte): cercando di stabilire, insomma, se fossero vivi o morti scrivendone Andrea. Sono ben pochi i luoghi notevoli e utili alla datazione, o alla conoscenza stessa degli scritti di Isernia, che non siano stati indicati dal Liparulo; e questo lavoro umile è stato fondamentale anche per gli scritti ricordati nell’opera da Isernia stesso, e perduti; e sempre lui ha individuato quasi tutti (non tutti) i maggiori giuristi che dell’Isernia hanno scritto con lode. Infine, quanti hanno biografato Andrea da Isernia, dal Ciarlanti e dal d’Andrea al Palumbo e oltre, hanno attinto dalla biografia del Liparulo, e spesso evitando di citarlo.
5. Il commento feudale
5La più importante tra queste opere, anche per l’intensità d’impegno e di pensiero che lo stesso Isernia vi ha profuso, e per la sua stessa notorietà, è il commento ai Libri Feudorum. Il Palumbo usando costantemente le indicazioni del Liparulo, s’è posto criticamente il problema della datazione di questo corposissimo lavoro, e l’ha genericamente fissata all’epoca di Carlo II (1286-1309) descritto sempre per vivente, mentre Carlo I è sempre ricordato defunto; ne individua riscontri testuali e corrobora così la tesi tradizionale avanzata da Francesco d’Andrea65, Giannone e Pecchia, ch’egli stesso richiama espressamente. È esattamente la datazione di Liparulo. Però Palumbo ignora che già diversi decenni prima di lui il Laspeyres aveva affrontato lo stesso problema, notando un brano, tralasciato anche dal Liparulo, in cui si dava per vivente un papa Clemente (e re di Francia un Filippo), che lui pur titubante, per l’antica idea che Isernia morisse nel 1353, individuava a ragione in Clemente V (1305-1314) eletto al pontificato nel giugno del 1305, fermo restando il termine imposto da Carlo II, che appunto morirà nel maggio del 1309; il periodo redazionale dal 1305 al 1309 sarà poi autorevolmente condiviso, e con maggior determinazione, dal Kantorowicz66. Eppure, questo è troppo poco per recingere l’opera; non possiamo pensare che Isernia si sia messo a scrivere appena eletto al soglio papa Clemente, ed abbia prodotto in pochi anni, 4 o 5, un’opera di tanta mole (forse dieci volte superiore al commento sulle leggi federiciane) potendoci poi lavorare solo nei ritagli di tempo, e perciò con durata assai più lunga di anni. In ogni caso sarà prudente pensare che il lavoro sia iniziato prima, e forse anche diverso tempo prima del 1305, come in diversi hanno sostenuto67, e terminato anche dopo il 1309, benché «tempore…non multo posteriore», dice già il Liparulo. Incide profondamente in queste convinzioni tradizionali la presenza nel testo di almeno 45 additiones, il che mostra bene un’attenzione ripetuta e di lungo periodo alla sua fatica; ma in che modo la mostra? L’additio è qualcosa che si aggiunge ad un corpus ritenuto sano e definito; perché se non fosse così, più che aggiungere bisognerebbe rifondere e riscrivere. È un fatto acclarato che in alcune additiones Isernia cita il suo commento al Liber Augustalis, e le ha già indicate il Laspeyres68. Senonché citazioni di quel commento ci sono non solo nelle additiones, ma nel corpo stesso del commento feudale, e passate del tutto inosservate: una è nel commento a L.F. I 18 «hoc plenius discussi in const. Ut de successionibus», un’altra nel commento a L.F. II 16 «haec pulchre examinavimus in const. Post mortem», un’altra ancora a L.F. II 26 «ut diximus in const. reg. Si vasallus»69. Come spiegare queste notevolissime intromissioni? Come spiegarle, sia chiaro, allo stato della nostra conoscenza di questo testo di Andrea? Probabilmente non è necessario rinunciare all’idea della priorità del commento feudale su quello federiciano, non foss’altro perché le citazioni del primo nel secondo son ben frequenti, ed il primo ad usarle per una datazione delle opere è il Camerario, come vedremo, ma certo bisogna rinunciare alla comoda idea di una separazione netta tra i tempi compositivi dei due commenti. Il periodo cruciale dal 1305 al 1309 è forse nel fuoco di entrambe le composizioni, ma l’opera feudale era certo iniziata diverso tempo prima, divenendo oggetto di ripensamento via via che maturava il commento federiciano; sicché questo ripensamento molto spesso veniva affidato a delle additiones che in alcuni casi richiamano l’altro commento (e questa è traccia di una priorità dell’opera feudale), in altri casi determinavano una nuova e definitiva stesura del commento feudistico: e questo vale per i tre esempi appena indicati, e forse anche per l’inciso di papa Clemente V, quello che ha dato spunto alla datazione del Kantorowicz, dal 1305 al 1309. Potrei forse addurre un altro esempio dove s’afferma «hic succinte in effectu diximus, quia alibi plene examinavimus hoc»70: si tratta di un rinvio senza indicazione alcuna, nemmeno da parte del meticoloso Liparulo, del luogo di trattazione ultima, ciò che potrebbe indicare una dimenticanza di Andrea; ma la lunghezza innaturale della postazione che affronta il tema (il nr. 11 del commento) e la sua struttura di quaestio, potrebbe far pensare anche ad una riscrittura del testo originario sulla base di una riflessione romanistica. Ma ecco un nuovo problema: in questi tre o quattro casi – e negli altri che potrebbero essere individuati- siamo di fronte ad una riscrittura ossia nuova stesura del brano, oppure forse ad una sua prima stesura, ben possibile dato l’accavallarsi degl’intertempi? Finché qualche buon esemplare manoscritto dell’opera non sarà di conforto, la prima opzione sembra preferibile perché già da tempo ho indicato brani nuovi e aggiunte che Andrea ha fatto rifluire nel testo senza dar loro l’evidenza di additiones71. Ora va osservata con attenzione una di queste additiones, già da tempo segnalata: è il caso del dissenso di Andrea con Jacopo ‘del’ Belviso, illustre giurista bolognese ed anche docente nello Studio napoletano esattamente nell’epoca di Andrea, nonché autore anche di una celebre Lectura Authenticorum dai complessi, e in parte ignoti, intertempi compositivi, e la cui redazione definitiva, come ha dimostrato Domenico Maffei, risale al periodo tra il 1327 e il 1335. È un contrasto impegnativo, tra due grandi giuristi, e riguarda la seguente domanda: c’è un appoggio romanistico per ritenere il feudale non solo in potere di esigere coattivamente prestazioni dovutegli da quanti dipendono da lui in ragion del feudo, cioè dai suffeudali (questo è già stabilito dai Libri Feudorum; e Isernia: «esse iudicem in causa vassallorum quando de feudo agitur quod tenetur ab eo»), e, per estensione, dai dipendenti fondiari legati al feudale da prestazioni solo dominicali, ma anche c’è appoggio per ritenerlo iudex ordinarius per competenza civile di tutti i residenti nel distretto feudale? Andrea indica un brano delle Novelle (Coll.VI, 8 §Si vero forsan= Nov. 80, 3), e argomenta copiosamente per sostenere la soluzione positiva, sulla quale poggia anche la dottrina della cohaerentia territorio iurisdictionis, rimproverando il Belviso, il quale, nel commentare lo stesso testo, aveva pensato diversamente stravolgendo, a dire d’Isernia, il testo romanistico; il Belviso avrebbe in seguito tenuto conto di questa osservazione (o di altre) nella stesura definitiva della sua tormentata opera, ch’è poi la stesura data alle stampe. Tutto questo è stato già messo in chiaro diversi decenni fa, ma è necessario approfondire qualcosa. Quali informazioni poteva avere l’Isernia, e quando, della opposta dottrina del Belviso? Dell’insegnamento napoletano del Belviso sappiamo solo che avrebbe letto nel 1301-1302 il Digestum Vetus. Dunque ignoriamo se avesse anche spiegato l’Autentico; egli sembra negarlo, perché nel proemio della Lectura Authenticorum dice di aver già letto e spiegato dieci volte quel testo, ma nello Studio bolognese72. Ma allora l’Isernia da dove ricavava la notizia? da notazioni pervenutegli di studenti in Bologna? Da una redazione intermedia o da qualche repetitio del Belviso giunta in suo potere? A me sembra tuttavia difficile; e potrebbe essere più semplice immaginare, con circospetta prudenza, che Isernia avesse appreso l’avversata impostazione dottrinale da qualche richiamo incidentale all’Authenticum fatto dal Belviso nei corsi napoletani, o, anche qui, da qualche specifica repetitio sul punto di legge, se non da una sua lettura ordinaria di quel testo73. E quando? nel periodo dal 1298 al 1302, o forse 1303, perché una seconda stagione napoletana del Belviso, dal 1311 in poi, è quanto mai incerta; e del resto, varrà ripeterlo, fin dai tempi del Savigny si ritiene che la parte feudistica dell’opera del Belviso, o quanto meno la sua stesura di base, fosse conclusa entro la vita di Carlo II e cioè entro il 1309, l’avesse o meno impostata a Napoli. Se tutto questo fosse vero, si potrebbe ribadire quel che si ipotizzò decenni fa, e cioè che «l’additio fu composta (da Isernia) con materiali risalenti al primo soggiorno (in Napoli) del Belviso»74. Dunque, in quel torno di tempi (1298-1303) l’opera feudistica di Isernia sarebbe già stata completata se egli ha ritenuto di integrarla, in questo caso, con una aggiunta, e perciò l’avrebbe iniziata diverso tempo prima. Se si riuscisse a confortare questo intertempo interno, sarebbe necessario arretrare la datazione dell’opera di qualche anno, cioè al periodo 1286-1303; in ogni caso il periodo 1305-1309 resta accettabile in via tendenziale per le altre additiones (o per qualche riscrittura del testo, che ho indicato sopra) in attesa di indagini ulteriori
6È necessaria anche un’altra riflessione che serve a spiegare le incertezze e la approssimazione nelle datazioni delle opere maggiori di Andrea, e ch’è anch’essa tradizionale: la ritrosìa del giurista a citare le leges di appoggio, e non solo i capitoli angioini, ma anche altre fonti normative. Ovviamente nel commento feudale, non destinato a interpretare il diritto e le leggi feudali del Regno se non in connessione col diritto feudale comune, questa inclinazione dovremmo considerarla meno appariscente, ma si può egualmente riscontrare. Ad esempio l’Isernia non cita la lettera di Clemente VI del 30.I. 1315, che pure tocca una questione fondamentale da lui trattata, e cioè il potere del Re di alienare il demanio regio, e si limita a citare i cd. Capitoli di papa Onorio IV del 1285 e il precedente accordo di Carlo I col pontefice per l’investitura del Regno75. Apparentemente Andrea non cita nemmeno il famoso capitolo Item ad inquisitionem del 1282, che invece è a fondamento della sua nuova dottrina del baro iudex ordinarius in civile in ragione del territorio e dunque della cohaerentia territorio iurisdictionis, e, ma in realtà non è così, e non solo per la petizione di principio che una tal dottrina senza quella legge non potrebbe essere avanzata, o per le rivelazioni appena successive di Biagio da Morcone, ma perché la vigenza di quella legge è proposta in un brano centrale, pur senza espressa menzione, con hodie, ch’è il modo giuridico di indicare lo ius novum e la sua forza irradiante, non una generica attualità76. E tuttavia c’è, in questa grande opera, una specie di cortocircùito che va affontato: in più brani, e tra questi in uno essenziale, Isernia cita il cap. Provisum, che Liparulo, ma prima di lui giuristi come Antonio Capece e Marino Frezza77, hanno individuato nel capitolo Apud Fogiam. Provisum. Ora quest’ultimo capitolo nell’edizione Trifone è assegnato a re Roberto e datato a 8.VI.131778, quando Andrea d’Isernia era indubbiamente morto. Senonché in un punto altrettanto importante, e che non può ritenersi errato, Isernia cita quel testo come «quaedam ordinatio Regis Caroli I…quae incipit ‘Provisum’»79. La ‘ordinatio’ è di estrema importanza perché dispone, in tema di successione feudale, l’osservanza anche delle ‘constitutiones Imperii’, con allusione non equivocabile alle leges imperiali presenti, e sono molte, nei Libri Feudorum, e ponendo allora un problema interpretativo80, còlto centralmente da Isernia, a quanti intendono quei Libri come ratio scripta, e non come fonte di disposizioni direttamente cogenti. Il mistero va risolto in un modo per altro non inconsueto in quest’epoca: il riutilizzo (per ‘incorporazione’) ad opera di Roberto e dei suoi giuristi, quasi certamente con integrazioni e modifiche, di una precedente disposizione di Carlo I che non ci è pervenuta, o non è stata individuata.
7E la fortuna di quest’opera insigne di Andrea? Le laudationes dei grandi giuristi esterni al Regno non sono moltissime, e sono state più volte richiamate ed elencate, fino al Chioccarello e al Giustiniani: mi limito a ricordare che il Liparulo cita Giason del Maino; in seguito Angelo degli Ubaldi in un consilium molto noto nel Regno (dal d’Afflitto a F. d’Andrea), a firma doppia col suo grande fratello Baldo, dirà «nec quisquam putet me audere contra Andream loqui quia maximus Andreas doctor fuit»81. Tuttavia è proprio Baldo che non ha esplicita considerazione di Andrea, anzi in un consilium feudale che egli avrebbe reso a Napoli al tempo di Giovanna I e che ci è stato conservato solo da Matteo d’Afflitto, ne dice: «tam egregius doctor…multoties sibiipsi contradicere videtur». E nell’opera baldesca sui feudi – così disorganica- c’è, a ben vedere, una idea diversa della cohaerentia della giurisdizione: essa sarebbe inerente al territorio in modo inerte e inanimato divenendo viva e attiva per l’esercizio della persona esercente, e dunque inerendo alla persona, cioè ratione personae che qui, per Baldo, è il magistratus, non certo il feudale. È una dottrina che, anche in ordine all’evolversi in senso monopolistico della forza politica, finirà per prevalere; solo Iacopo Alvarotti, a inizio Quattrocento, si chiederà, in forma di quaestio, se davvero il feudale ha giurisdizione anche su chi non gli è subordinato ratione feudi82, ch’è la proposta dell’Isernia. Indubbiamente è però la costruzione baldesca che s’imporrà, magari assumendo forma di dubbio teorico, proposto come presunzione dottrinale: «iurisdictio in dubio potius castro vel territorio quam personae cohaerere censetur», che attecchisce in specie nella feudistica tedesca, sempre tuttavia su base baldesca, e sullo sfondo della gran questione dell’infeudazione di castrum, non dalle pagine di Andrea. Alla fine questo vale anche per i maggiori feudisti italiani del corso del Quattrocento, come Giacomino da Sangiorgio, o il Preposito milanese, questo di chiara ascendenza baldesca, che però conoscono bene Isernia, e lo citano di frequente, ma ne fanno un uso per lo più repertoriale, indicandolo semplicemente, con altri feudisti, a fonte del tema trattato. Nel tempo, con l’avanzare del Cinquecento, la fama di Andrea sfuma un poco dovunque, in Francia, o in Germania; mentre in Inghilterra la sua influenza non poteva certo attecchire dato che «multa feuda sunt quae nullam habent iurisdictionem, veluti omnia feuda inferiora apud nos…Anglos» ci dice (I, 10, 3) Th. Cragius (†1608). Nel Regno, invece il prestigio e la fortuna di Isernia è larghissima e in sostanza continua, ed anche intensificata dopo l’edizione incunabola del 147783. Anzi sarà uso per ogni feudista lo spiegare ogni brano dei Libri feudorum, spiegando al tempo stesso l’interpretazione iserniana di quel brano, e, inoltre, commentando le ben diverse questioni de iure proprio feudorum, cioè il diritto feudale di base legale del Regno, sul presupposto imprescindibile del pensiero di Andrea. È Andrea la guida di una pratica feudale priva nel Regno di punti teorici di riferimento altrettanto forti e fondativi, e questo ruolo di testo basilare84, spiega pure il fiorire in ogni tempo di prontuari, riduzioni, indici e difese (ad es. P. dal Pozzo, S. Loffredo, F. Guardati, G.B. Manieri85 etc.); ma spiega soprattutto un’opera di filologia giuridica che nel Regno non ha precedenti, quella del vescovo Leonardo (o Nardo) Liparulo, sul quale non sappiamo molto, e quel che sappiamo è, a volte, sbagliato, come la notizia di un’edizione a Londra (invece è Lione) dell’edizione di Isernia col suo commento86. Nonostante l’importanza di questo gran libro, sono del tutto scarni gli interventi critici più o meno recenti su di esso87. Noto, per evitare falsi problemi sulle opere di Andrea, che l’ultima rubrica del commento feudale, accoglie le sue riflessioni alle 11 leges di Federico II del 1220 col consueto titolo, De statutis et consuetudinibus contra libertatem Ecclesiae, in genere poste dopo il testo dei Libri Feudorum; Isernia alla fine vi unisce e commenta (ed. 1571, c. 317v) la autentica Habita (post Cod. 4, 13, 5) del Barbarossa: scritto dunque non perduto come tutti hanno ritenuto88.
6. Il commento federiciano
8Altra opera alla quale Andrea da Isernia deve fama, e massima nel Regno, è il commento al Liber Augustalis di Federico II, edito una prima volta da Sisto Reissinger nel 1472, e che, con la glossa ordinaria di Marino da Caramanico, accompagna in genere – e ‘ordinariamente’- le edizioni antiche del Liber, quanto meno, per quel che se ne sa, dalla edizione veneziana del 1506 (benché forse non in tutte le successive); tra queste edizioni la più usata è la napoletana del Cervone, del 177389. Il titolo che compare nelle edizioni, e ‘in qualche manoscritto’ è quello di ‘peregrina lectura’ ma è assai dubbio che risalga a lui e sarebbe stata così definita per la sua «completezza e organicità», ma non certo per essere il prodotto di una attività di Studio90. L’opera è definita semplicemente ‘commentaria’ dal Liparulo. La datazione è piuttosto consolidata, ma generica dato che la si ritiene appena successiva all’opera feudistica, perché di frequente vi si rinvia. Il primo a notare questa situazione e darle rilievo cronologico fu Bartolomeo Camerario, studiando il pensiero d’Isernia nel commento di L.F. II 50 De natura successionis feudi e della const.III 27 Ut de successionibus91, è però altrettanto vero, e l’ho detto, ch’è stato attestato anche l’inverso: cioè la citazione del commento al Liber federiciano in alcune additiones, ma anche in alcune parti del commento feudale, e siccome almeno queste additiones parrebbero databili – con cautela- al periodo dal 1305 al 1309, con la possibilità congetturale, che ho esposto sopra, di anticiparne almeno una ad epoca di qualche anno anteriore, in sostanza è ben pensabile che il lavoro iniziasse prima della morte di Carlo II per proseguire dopo92. In effetti in un brano notevole, ch’è anche l’unico nel quale Andrea d’Isernia espone una data precisa, è detto: «inclitus dominus Rex [Carolus II] declaravit…ubi praesens fui…18 Decembris 1305 indict. IV»93; e non sembra affatto che, scrivendo Andrea, quel re fosse già morto, ed anzi, parrebbe datazione incombente, per la sua precisione, sulla redazione del commento. Anche per il periodo successivo alla morte di Carlo II, cioè durante il regno di Roberto, c’è un riscontro diretto, benché generico: Isernia scrive «declaratio quae est in registris, quando rex Robertus erat vicarius patris sui»94. Insomma, l’uso di datare l’opera al 1309 o nel primo periodo del regno di Roberto d’Angiò95 (successo a Carlo II il 5 maggio 1309), pur non potendosi dire errato, fa torto alla complessità del problema. E questa complessità non è solo cronologica, ma logica, se si pensa, e ne ho già fatto cenno, che due grandi giuristi, il Camerario e il d’Andrea disputeranno tra loro, a distanza di più d’un secolo, il Cinquecento e il Seicento, sulle opere di Isernia, al fine di ricavare il suo pensiero ultimo e vero su un certo profilo delle successioni feudali. Questo profilo va messo a fuoco in generale, perché disporre in un certo ordine cronologico i brani dottrinali (quindi non puramente teorici) dotati di auctoritas, per esaminarne il pensiero significa, o dovrebbe significare, disporli secondo la cronologia delle disposizioni normative (anche non espressamente citate) sullo stesso oggetto, l’ultima delle quali ha, per sua natura, forza di abrogare, in tutto o in parte, le precedenti; ma può darsi anche che le mutazioni di pensiero in queste dottrine siano indagate, o inventate, per avvalersi in corso di causa della loro ultima postazione. Non è raro, così, che il pensiero interpretato sia disposto secondo le convinzioni dell’interprete; e in fondo tutta la discussione a distanza tra il d’Andrea e Bartolomeo Camerario verte sul corpo inerte degli scritti dell’Isernia, e su quale di questi scritti precedesse l’altro. In ogni caso, se il d’Andrea si mostrerà critico di questi pensieri dell’Isernia, è pur sempre, a distanza di quattro secoli, una prova di quale autorevolezza quel pensiero avesse. Vorrei tuttavia riflettere su qualche punto cronologicamente, più che logicamente, notevole e contraddittorio di questo commento. Già il Liparulo aveva notato che Matteo d’Afflitto, commentando la const. Hostici, si meravigliava che nel commentare la stessa legge federiciana, Andrea da Isernia non poggiasse sul capitolo Si comes aut baro di re Roberto96. Questa sorpresa del d’Afflitto (fuorviato dalla convinzione errata, ed ereditata da Paride dal Pozzo, che l’Isernia morisse nel 1353), rilevata dal Liparulo, è passata di autore in autore, fino a divenire invettiva nel d’Andrea, e a convincere non solo il Giannone, ma anche un cauto ed acuto osservatore come il Pecchia. Questa genealogia d’interpreti ha spiegato il silenzio con una rivalità tra Andrea e Bartolomeo da Capua, il quale sarebbe stato, come certamente fu, preferito dal Re, e con l’ulteriore effetto di ritenere l’Isernia, inclinato per livore e non per convinzione, a dottrine antifiscali, in particolare in materia di successioni feudali; questa rivalità è invece, e di per sé, del tutto infondata, perché i rapporti tra i due furono d’intesa97. Addirittura è possibile pensare che Bartolomeo da Capua, sopravvissuto all’Isernia di diversi anni, ne abbia postillato l’opera feudale, ma è suggestione da sottoporre a critica rigorosa98. Quel silenzio si spiega più semplicemente: il capitolo Si comes aut baro è datato al 14.VII.131699, quando Isernia era o morto o in limine vitae, posto che anche questa legge non incappasse in un suo silenzio invece volontario. Non è tutto qui perché, in verità, è necessario trovare risposta ad altri dubbi; e ad uno in particolare: c’è un altro brano nel quale è citato Roberto, e si scrive «hodie tamen per constitutionem novam regis Caroli I quae incipit ‘Nuper apud Tranum’, post quod capitulum, successit cap. regis Roberti contra receptatores quod incipit ‘Licet contra receptatores’»100. Questa citazione costituisce un vero e proprio enigma, perché la ricognizione dei manoscritti fatta dal Trifone per l’edizione critica di questo provvedimento, in un solo caso ha offerto una data, quella dell’otto maggio 1306, con l’indizione connessa, la settima; ora, indubbiamente nel 1306 Roberto non era ancora re, e il Trifone sul presupposto, dichiarato, che almeno l’indizione, la settima, fosse esatta, proponeva la data del 1324 (otto maggio), di settima indizione (il 1306 è di quarta)101 quando Andrea da Isernia era morto da un pezzo. Premetto che in questo caso, come in alcuni altri, l’edizione del Trifone102 lascia perplessi: ad esempio omette il nome di Roberto, invece presente, come lui stesso nota, nelle edizioni a stampa e nella tradizione manoscritta; ma, detto questo, il provvedimento ha certamente natura vicariale (lo si evince dal testo), e antepone, stando a questa edizione, il nome di Carlo, primogenito di Roberto, ch’è stato, a più riprese, vicario del Regno103; e in effetti Roberto, nel maggio del 1324 non è a Napoli; vi rientra solo a fine mese o all’inizio del mese successivo104, dunque il provvedimento parrebbe di Carlo; se poi vogliamo credere che l’espressione ‘noviter’ presente nel testo sia un richiamo di disposizione precedente, dello stesso Vicario, e nella stessa materia, avrebbe ragione il Trifone a indicare il capitolo Crescit culpa (nr.116, pp. 195-197) del 21.VIII.1319. Se però il Trifone ha ragione, la citazione del capitolo in Andrea d’Isernia non può che essere un’interpolazione nel suo commento; e questo ci fa sommamente e variamente pensare, in modo non dissimile da quanto s’è pensato, e si pensa, delle edizioni a stampa, estremamente scorrette, della glossa ordinaria. Infine, non costituisce propriamente un enigma, perché corrisponde ad una inclinazione che si è già notata nell’opera di Andrea, il silenzio o, se si vuole, la mancata citazione di una legge di estrema importanza, e cioè del cap. Ad regale fastigium di Roberto d’Angiò del 14.XI.1314, che è di grande importanza, perché esprime l’idea stessa, maturata dopo il Vespro, che hanno i monarchi angioini del ruolo della feudalità: vi si dice espressamente, con l’artificio retorico della doppia negazione, che nessuno fuorché il Re (e i suoi officali) può esercitare la giurisdizione, in particolare penale «nisi id a nobis habet ex privilegio speciali»105. Con questo semplice inciso, notato dai maggiori studiosi, dal Pecchia a Winspeare a Croce, si spezza la altera e possente costruzione federiciana della esclusività regia delle giurisdizioni, dettata da leggi celebri come la const. I 49 Ea quae ad decus o la const. I 50 Cum satis. E certo anche Federico II elargiva privilegi di giurisdizione, ma erano contra legem e perciò di assai più semplice e piana giustificabilità in termini di revoca. Tutto è ora diverso, la causa della revoca deve ormai tener presente il fondamento legale del privilegio106. Eppure, nonostante questa diversità, che un giurista sa cogliere, l’Isernia nel commento delle leggi federiciane indicate non fa alcuna espressa menzione della disposizione del re Roberto; e nel novembre del 1314 egli è ben vivo e attivo. Come mai? Ogni risposta sarà sempre congetturale, ma certo l’impianto del suo commento a queste leggi tiene costantemente presente il caso del privilegio che esclude l’applicazione della legge generale, come se i due tipi di attribuzione fossero ormai disposti, come erano, sullo stesso piano costituzionale. La notorietà dell’opera è legata in particolare al Prooemium che è certamente uno dei più significativi manifesti del pensiero politico angioino, e, in questo senso, è usato dagli autori classici, già indicati, e in Italia da Calasso, Cortese, Paradisi, e, più di recente da diversi altri studiosi107 anche per dimostrare un certo tratto del pensiero meridionale nel passaggio dalla Monarchia sveva a quella angioina e in particolare per evidenziare la sempre più intensa (come s’è detto) concezione di subordinazione del Regno al Papato, che nel pensiero di Andrea d’Isernia, se confrontato con quello precedente di Marino da Caramanico, si traccia con somma evidenza nella questione, comunque costante e classica nel Regno, dell’appello al pontefice. Questa notevole costruzione avviene, come per Marino da Caramanico, e come sarà, fino al Seicento, per gran parte dei pensatori politici di formazione giuridica, con la teorica del ‘dominio diviso’ per terre e poteri sull’intero Regno e sulle sue singole parti. A questo fine Isernia utilizza la scissione tra un dominio eminente e un dominio utile (di effettivo godimento) sulla terra e sul potere connesso (che può a sua volta ridursi ad eminente per essere attribuito in godimento altrui) per radicare in ciascun grado sovraordinato o superiore di questa scala o gerarchia dominicale un potere d’impugnazione rispetto all’esercizio sottostante delle giurisdizioni sempre legate all’effettivo godimento delle terre: «appellationes sunt species superioritatis» diranno i feudisti successivi; ma già qui Isernia profila la teoria dominicale rilevando ed evidenziando dal suo interno, l’elemento potestativo della iurisdictio108. In un punto notevole, commentando la dizione estrema di Federico che vanta generale dominium sui beni e sui diritti di tutti i sudditi, Andrea si affretterà ad impugnare l’«error Martini» spiegando: quel che può comportare sui beni dei sudditi un «generale dominium est iurisdictio»109. Non ci sono indubbiamente grandi novità; la iurisdictio, come potere politico, è ancora saldamente rinchiusa nel recinto dominicale, e non potrebbe essere diversamente. In chiusura del Proemio, Isernia ci dà una misura cronologica anch’essa di difficile valutazione, naturalmente non sfuggita al Liparulo e poi al Palumbo e ad altri: e cita «decretalem illam ‘Cum interest’» della quale è autore «Innocentius III qui decessit iam sunt anni centum et plus, ut patet per chronicas»110. Qui si verte in tema di prescrizione acquisitiva, nella quale è necessaria una qualche precisione nel computo dei tempi, ed è allora assai improbabile che Andrea valutasse questi cent’anni alla buona, e difatti ricava la data di morte dalle cronache; perciò siccome papa Innocenzo III muore al 16.VII.1216 è forse possibile immaginare, con somma e cauta prudenza, che esattamente cent’anni dopo, e poco più, Isernia aggiornasse ancora il suo lavoro, almeno in questo punto, benché trascurasse capitoli angioini degli stessi giorni, come ho detto; ma sostenerlo a spada tratta, senza una ricognizione dei manoscritti, che potrebbero rivelare errori, interpolazioni111 e arbitrii, è certamente un rischio di notevole calibro. Se tutto questo dubitare fosse infondato avremmo invece la prova che Isernia al 17 luglio 1316 era ancora vivente, con evidente compatibilità con le notizie certe in nostro possesso.
7. Il rito dei Razionali
9L’ultima opera importante di Isernia, e di carattere eminentemente pratico, è la consolidazione (privata, ma che nell’uso ottiene valore di raccolta di disposizioni normative cogenti) dei ‘riti’ della Gran Corte dei Maestri Razionali, l’istituzione che, nei secoli successivi diverrà, con percorso tormentato, la Camera della Sommaria112, e nella quale l’autore è presente nell’ultima parte della sua vita, come s’è detto. Sopravvivono diversi manoscritti, ma ne possediamo un’unica edizione a stampa del 1689, accompagnata dal commento del giurista d’età aragonese Goffredo de Gaeta, e da altri addentes (e tra questi un notevolissimo glossatore anonimo di metà Cinquecento)113; nel 1930 le parti ritenute di diretta derivazione federiciana sono state meglio riedite da Sthamer114; e non si tratta solo di disposizioni normative, ma anche di documentazione tratta da perduti registri federiciani esplicitamente richiamati, e in alcuni casi anche riscontrati115. Non c’è mai stato alcun dubbio sulla paternità dell’opera, elaborata, con palese impianto dottrinale, su disposizioni legislative e, parrebbe, sullo ‘stylus’ di curia; ma nel 1942, in un’opera postuma ancora di E. Sthamer, e in un punto sul quale ha attirato l’attenzione R. Delle Donne, si propone una revisione di tale tradizione, individuando nel non ignoto Iozzolino della Marra († 1278?) il probabile autore di quella che in ogni caso non può essere altro da una consolidazione di materiali di varia natura, preesistenti116; anzi la novità non consiste ovviamente nel fatto che i materiali consolidati fossero anteriori ad Isernia, ma nel fatto che gli fosse anteriore la consolidazione stessa. Già in antico s’è discusso sul suo titolo, e, come sempre, il Liparulo ha indicato un brano di Luca da Penne dove si dice che Andrea «de tali materia [licitationibus…] specialem…composuit libellum quem ritus doanarum appellavit»117, e le ricerche già indicate di Sthamer hanno confermato, su basi anche documentali della fine del Duecento (1283), che appunto questo – Ritus dohanarum- doveva essere il titolo della raccolta118. Cade dunque, o potrebbe cadere, l’opinione del Monti, convergente con quella risalente del Capasso, che il titolo se non originale, quanto meno il più antico, fosse «Ritus regiae curiae officium rationis»119. Siccome ancora Sthamer, mettendo a frutto la fondativa ricerca di Monti, ha dimostrato che il testo mandato a stampa nel 1689 e ch’è quello comunemente usato dagli studiosi, deriva da un manoscritto elaborato successivamente alla vita dell’Isernia120, è condivisibile, ma da confortare ulteriormente, la congettura che questa elaborazione passata poi a stampa datasse dall’epoca in cui la Camera della Sommaria aveva ormai assorbito tutte le funzioni dei Maestri Razionali, ‘soppiantandoli’: cioè durante il regno di Ladislao121. Certamente però nel consolidamento dei riti, interventi di Andrea da Isernia ci furono senza meno, e probabilmente notevoli, e trattenuti nelle elaborazioni successive, anche se s’accetta l’idea che il lavoro consolidatorio non fu in origine suo. Dobbiamo perciò pensare, e in diversi l’hanno pensato, che dopo la redazione, questo lavoro abbia continuato a crescere, per opera anche d’Isernia, e di altri dopo di lui, nel modo cumulativo e alluvionale proprio di altre raccolte di questo tipo. Resta naturalmente sul terreno un problema difficile, che sarà necessario tentare di risolvere più approfonditamente, e cioè l’apporto preciso di Andrea da Isernia a questa consolidazione. Posso anticipare, e in qualche modo l’ho già fatto, almeno una considerazione: il testo dei riti è di frequente, se non prevalente costruzione dottrinale, e dunque di impianto argomentativo, e cioè di base logica persuasiva, e non immediatamente impositiva (il che fu già notato da Sthamer), come invece s’addice a una legge o altra disposizione prescrittiva; e questo, unitamente ad alcune rampogne antifedericiane presenti nel testo, s’adatta assai più all’Isernia che ad autori altri o precedenti o successivi. Intanto, per dare a ciascuno il suo, dobbiamo al Giannone la prima analisi attenta dei rapporti interni tra questo lavoro consolidatorio e gli altri dell’Isernia: un’analisi poi riutilizzata e largamente integrata dal Palumbo e soprattutto dalla ricostruzione d’insieme del Monti122. Qui basti dire che i riscontri tematici più che testuali tra la raccolta dei riti e il commento feudale e, soprattutto, quello federiciano, già evidenziati dal Giannone (in forza, per verità, delle indicazioni del glossatore anonimo cinquecentesco), e un assai noto richiamo all’opera feudistica da una glossa non siglata al testo del rito Caveat tamen attribuita a Isernia123, mostrano un chiaro interesse di Andrea per la materia fiscale, cioè per i diritti fiscali della Corona e motivano bene, e in piena coerenza, un suo perduto lavoro romanistico, che egli ricorda nell’opera feudale, e che se, come sostiene Liparulo, riguardasse ‘totum titulum’ su Dig.49, 14 de iure fisci, potrebbe ben essere una larga repetitio tenuta in Studio. Però Isernia, ricordando questo suo lavoro dopo aver indicate le prime due leges del titolo, scrive soltanto «ut ibi nos diximus plene de hoc»124 e non sembra che intendesse altro che un’attenzione a queste due leges. In quest’ambito tematico i raccordi più stringenti con i riti sono dal commento alle federiciane const. I, 7 Quanto ceteris (c’è il celebre brano antifedericiano, con l’elenco degli iura vetera e nova del fisco) e const. I, 89 Magistros con la citazione, nel commento iserniano, degli ‘statuta Imperialia quae sunt in dohanis’125. Un esame a parte merita un brano in Libri feudorum II, 55 Regalia che si vuole corrisponda letteralmente ad un rito126 (forse federiciano); in realtà corrispondenza testuale non mi pare ci sia, ma solo disciplinare; ma è necessario riflettere perché qui Isernia rinvia effettivamente ad un certo rito, senza però cenno alcuno all’opera di consolidamento, sua o altrui, dei riti. E lo stesso dicasi per le corrispondenze tematiche tra brani del commento federiciano e riti, già indicate, perché nessuno di questi brani è corredato da un qualche rinvio al consolidamento127. Come mai? Isernia non era soddisfatto del consolidamento altrui e preferiva citare direttamente o esclusivamente i riti? ne stava elaborando uno proprio? O quanto meno ne stava integrando quello altrui? In ogni caso possiamo ben ritenere, e tutti hanno ritenuto, che quest’opera sua non fosse ancora stata portata a compimento.
10Dunque resta accettabile l’opinione antica che questa d’Isernia fosse opera successiva ai due grandi commenti e ‘ultima’ tra le maggiori. Per i più determinati sarebbe stata composta «ne’ primi anni del regno di Roberto»128; solo Monti sostiene, ed è abbastanza credibile, che l’opera o l’intervento o altro che fosse possa datarsi (o essere stata integrata) dall’autunno del 1315 alla morte del giurista129.
11Forse si può aggiungere un particolare notevole, che si legge in un rito vergato indubbiamente da Andrea: «ut inclytus Rex Carolus Secundus, sicut audivi, et praesens fui, determinavit, et declaravit in casu Venetorum, cum consilio sanctae recordationis domini Petri de Ferreriis cancellarii sui, magnae utique scientiae et conscientiae bonae»130. L’inciso non serve alla datazione, perché il de Ferrières, che il brano dà, evidentemente, per morto, premuore a Carlo II. Però c’è dell’altro da notare, perché Andrea da Isernia non è affatto incline a citare i giuristi suoi contemporanei; lo fa per distanziarsene, come mostra l’esempio di Giacomo di Belviso, o di Guido da Suzzara, o li eclissa nella metafora di ‘moderni’, i quali, va detto, non sono soltanto i giuristi meridionali, e ‘ordinariamente’ il Bonello, come pensava Capasso, ma è anche ad esempio, il Révigny131. Qui invece, per il de Ferrières, il patrocinatore del dottorato napoletano del Belviso, siamo alla lode e al ricordo132.
8. Gli scritti minori
12Sarà prudente iniziare l’elenco degli scritti minori da quelli perduti ed anzitutto da quelli dichiarati da Andrea stesso nelle sue opere, in particolare nel commento feudistico, e puntigliosamente elencati dal Liparulo: mi limito a ricordarli qui, perché possono essere utili per successivi riscontri nei manoscritti giuridici, inserendo solo la moderna collocazione romanistica o canonistica o altro che sia e la carta del commento feudale (nell’edizione del 1571) dove Andrea ricorda il suo scritto133. La grande maggioranza è romanistica, e in particolare dal Digesto: e cioè su Dig. 4, 4, 37 Auxilium (c. 264va ed. 1571); Dig. 6,1, 44 Fructus (c.197rb ed. 1571); Dig. 38, 1, 29 Si operarum (c. 41vb ed. 1571); Dig. 43,4, 3 Si quis missus (c. 244va in fine ed. 1571); Dig. 49, 1, 16 Constitutiones (c.307va a metà ed. 1571); sulle prime due leges di Dig. 49,14 de iure fisci 134; su Dig. 49,15, 21, 11 In civilibus (c.306va in fine, ed. 1571) e su Dig. 50, 17, 160, 1 Refertur135. È anche possibile che abbia scritto su Dig. 28, 3, 6 Si quis filio, 9 Quid tamen136. Sul Codice ci sono anche diversi pezzi: Cod, 1, 3, 31 Orphanotrophos (c.244va a metà, ed. 1571); Cod. 3, 31, 11 Cogi137; Cod. 8, 10, 3 An in totum (c.294va a metà, ed. 1571); Cod. 8, 10, 13 Cum dubitatur138. Ci sono tre pezzi canonistici: uno sul Decreto: II pars, caus. 9, quaest. 3, cap. 21 Per principalem (c.294vab, ed. 1571); due al Liber Extra: X,5,32, 2 Cum ex iniuncto, e X, 5,40, 25 Abbate (entrambi citati in sequenza c. 201vb, ed 1571). E alla Lombarda: Lomb. 2, 56 (Qualiter quisque se defendere debet) 15 Si quis (c.32ra, ed. 1571). Ricordo anche una sua opera di taglio filosofico sul sapere giuridico (Praeludia feudorum nr. 21 c. 2vb, ed. 1571), che ho già citato. Nessuno degli scritti qui indicati corrisponde ai nove brevi pezzi romanistici definiti ‘glossae’ dal Meyers e editi nel 1925 dai manoscritti Vat.lat. 1428, e Vat. lat.1413, in uno dei quali (il nr.2) è citato Guido da Suzzara139. Conosciamo da molto tempo anche nove suoi singularia d’un certo interesse (che indico da un’edizione del 1576) dai quali trapela anche traccia d’una sua attività d’avvocato (ne ho già scritto), e quella sua inclinazione, da sempre notata, a ragionare giuridicamente da quaestiones de facto140, ch’è disvelante del giurista pratico. Non si sapeva che ben otto di questi nove pezzi corrispondono a otto dei pezzi romanistici di Andrea editi a metà cinquecento da Marcello Bono in una sua raccolta di singularia (in tutto ben 151 stando al titolo) di vari giuristi141. Solo il primo dei singularia del 1576 e il primo dei pezzi editi dal Bono divergono142. È opportuno notare, ma se n’è accorto già Ennio Cortese, che alcuni (non tutti) dei 151 singularia, il Bono li trasse «de libro Leonardi de Iserniae qui fuit Andreae», ma forse indirettamente, perché questa notizia è in un pezzo siglato ‘Io. Bacca’ sempre edito dal Bono143. Dò di seguito l’incipit degli otto pezzi editi dal Bono con l’indicazione sia della loro collocazione romanistica sia del corrispondente pezzo dei singularia (ed. 1576): ‘Quid si est consuetudo’ (Cod. 2, 3, 15 Pactum, p.451b= Singularia II); ‘Numquid mulier’(Cod.3, 32, 9 Doce ancillam p.452= Singularia III); ‘Nota quod nepos’(Cod. 5, 27, 12 Cuidam pp. 456b-457a= Singularia IV); ‘Sed utrum tutor’(Cod.6, 30, 22, 9 In computatione, pp. 457b-458a= Singularia V); ‘Nota bonam’ (Cod. 8, 27, 10 Et qui, pp.461-462a= Singularia VI); ‘Nota ad questionem’(Cod.8, 34, 1, Qui pactus p.462= Singularia VII); ‘Per hanc legem’(Cod. 8, 36, 5 Censemus p. 462b= Singularia VIII); ‘Ex lege ista obtinui’(Cod. 9, 1, 5 Senatus, p. 464a= Singularia IX). Secondo l’opinione di Ennio Cortese, i brani editi dal Meyers (così come quelli indicati dal Liparulo) avrebbero origine scolastica; sarebbe invece difficile che l’abbiano tutti questi singularia. Lo stesso vale, a mio parere, per le quattro quaestiones edite nella miscellanea secentesca del De Marinis144, dov’è evidente (come anche in alcuni singularia) un certo interesse longobardistico. Di tali quaestiones, la prima riguarda un suo figlio premorto e potrebbe trattarsi, ma non è affatto sicuro, di Roberto, mentre è ben credibile che Andrea sia intervenuto come avvocato nei confronti della vedova; una quarta quaestio siglata a stampa da Bartolomeo da Capua145 e a lui assegnata anche da alcuni manoscritti, è attribuita (in parte) all’Isernia da un codice dell’Abbazia di Montecassino146, e resta di dubbia paternità. Spetta a Ennio Cortese il merito di aver fatto chiarezza su diverse altre brevi opere attribuite nei manoscritti all’Isernia. Parrebbe suo soltanto il trattatello De flagranti crimine (incipit Queritur quis dicatur captus in fragranti crimine); invece non è suo né il pezzo Quidam eodem momento dedit uni plures alopas (Vat. lat. 10726, c. 36v) né l’altro trattato De questionibus habendis (Vat. lat. 11605, cc. 121ra-122vb) ch’è poi, con qualche variante, il Tractatus de tormentis 147. Cortese, tuttavia, pubblica un altro notevole frammento in tema di tortura, attribuito a Andrea148 che risponde a quelle esigenze garantistiche chiaramente espresse in un suo celebre pensiero a commento della const. I 28 Si damna: «haec constitutio refrenat iudices gaudentes de morte hominum et sitientes sanguinem humanum»149. Certamente non è sua una Lectura Institutionum conservata in un manoscritto dell’archivio capitolare di Atri, e che si continua ad attribuirgli150. Tutto ciò invita a trattare con circospetta prudenza i manoscritti attribuiti ad Andrea da Isernia, che naturalmente sono più di quelli indicati dal Dolezalek151, e rivelano in genere, e stando al conosciuto, interessi romanistici, ma invitano anche a riflettere sulle attribuzioni antiche. Ad esempio è forse credibile un suo trattato de ordine judiciario o, più di frequente, iudiciorum, perché attestato già da Biagio da Morcone152; lo stesso Camillo Salerno pensava di darlo alle stampe153. Va invece sottratto ad Isernia un suo scritto sulle differenze tra diritti longobardo e romano, indicato dal d’Afflitto154 perché si tratta certamente dell’opera del Bonello (per riscontro dell’incipit indicato anch'esso dal d’Afflitto). Egualmente non è di Andrea di Isernia, l’Aerarium Constitutionum Regni Siciliae et Capitulorum glossa[ru]mque Andreae de Ysernia, indicato come presente in ‘antiche edizioni’ del commento federiciano di Isernia, perché Meyers notava che vi si citano Bartolo e Baldo 155; la questione però è più complessa, perché questo testo, che non ho potuto riscontrare in via diretta, indubbiamente coincide con il Repertorium Constitutionum et Capitulorum Regni Neapolis et glossarum domini Andreae de Ysernia u.i.d. che è presente in edizioni delle leggi sveve e angioine, fin da quella veneziana del 1506 (benché forse non in tutte le successive), e si dice composto da più dottori nel tentativo di razionalizzare il commento iserniano 156: sono spesso citati i capitoli angioini. Stando a quanto si legge, non può escludersi preventivamente (cioè senza esame dei manoscritti), la presenza di una base iserniana a modo di alphabetum successivamente integrata; ma a me sembra quasi impossibile157. Secondo una semplice congettura del Liparulo, priva di ogni riscontro, Andrea avrebbe anche scritto un commento ai riti dei Maestri razionali, da lui consolidati158. L’erudizione napoletana ha poi individuato negli infidi repertori antichi di bibliografia giuridica, altre attribuzioni di opere all’Isernia, delle quali non va fatto alcun conto159.
9. L’opera di Nardo Liparulo
13Un cenno, certamente meritevole di più adeguati sviluppi, va all’opera che Nardo o Leonardo Liparulo ha dedicato al commento feudale di Andrea da Isernia. Dell’uomo sappiamo quel poco che ci ha a suo tempo affidato il Giustiniani; morì vescovo di Nicotera prima dell’undici agosto 1578, quando fu insediato il vescovo suo successore, e l’unica sua opera a stampa sembra essere appunto questo commento, pubblicato a Napoli nel 1571, e, a quanto pare, a sue spese perché a fine volume, nel verso della carta finale dell’Index alphabeticus, si dice ‘Neapoli, in aedibus D.Nardi Liparuli, 1571. Mense Decembri’. Una seconda edizione fu a Lione ‘sumptibus Philippi Tynghi florentini’ nel 1579, quando il Liparulo era già morto, ed ancora una terza a Francoforte ‘apud haeredes Andreae Wecheli…’ nel 1598, mentre è attestata l’esistenza almeno di una quarta edizione, nel 1629, a Francoforte (typ. Wechelian.?), del testo di Andrea col commento del Liparulo, che però non ho potuto esaminare. Il complesso lavoro che Liparulo mette in campo per l’edizione del testo iserniano, è un’opera insigne di filologia giuridica; e, in questo senso, è del tutto in linea con la corrente filologica dell’umanesimo giuridico, e anzi, ne espone un tratto innovativo: oggetto di analisi filologica non è il testo di una lex, ma lo scritto di un giurista. In entrambi i casi non si tratta soltanto di critica dell’auctoritas consolidata, ma anche di evidenziare la fondatezza delle interpretazioni del testo iserniano, che, dopo due secoli e mezzo, era base imprescindibile di ogni analisi feudistica nel Regno, a vocazione dottrinale o semplicemente pratica, per la qualificazione, cioè, del caso concreto. Non c’era ricorso a leggi feudali federiciane e comuni, che prescindesse dalla analisi che di quelle leggi avesse prodotto Andrea da Isernia, e il discostarsi da queste analisi fu evento rarissimo, in specie prima della seconda metà del Seicento, quando la gran dottrina della cohaerentia territorio iurisdictionis cominciò a sfaldarsi, lentamente. Il fatto è che il pensiero di Isernia, profondo e sottile nella sua forza distintiva – perché la distinctio è l’arma intellettuale del giurista – è espresso in un latino evocativo e, per questo (non altro che per questo) lunare e oscuro. Un latino spesse volte però incomprensibile (e, nonostante questo, forzato in interpretazioni) per lo stato infelice del testo. Il Liparulo non è certo il primo autore ad accorgersi di tutto questo, e non è nemmeno il primo giurista a tentare un rimedio: basterà fare il nome, appena precedente, di Bartolomeo Camerario. Così, come il Liparulo stesso dichiara nella dedica al Viceré Antonio Perrenot de Granvelle, egli s’era s’impegnato per «novem fere annos…intra parietes domus meae latitans» a ripristinare l’intellegibilità del commento iserniano, sulla base anzitutto di un cospicuo numero di manoscritti, non meno di una ventina, dei quali il Liparulo offre soltanto notizie occasionali. Erano conservati in raccolte per così dire pubbliche, come nel Monastero di Monte Oliveto, ma erano soprattutto di sua proprietà: tra questi ve n’erano di «vetustissimis», uno datato invece al 1417, e parrebbero indicati dal Liparulo stesso con lettere dell’alfabeto, quanto meno dalla A alla V. Le correzioni proposte nelle glosse (e non subito nel testo) dal Liparulo, sono sempre accettabili e chiarificatrici, ma queste glosse non si limitano affatto alla sola nettezza del testo. Un sussidio notevolissimo viene dal fatto che l’utilizzo fatto da Isernia di qualunque legge di diritto comune o regio è meticolosamente corredato dal rinvio del Liparulo agli altri luoghi del commento dove l’autore utilizza la stessa legge; un metodo che i non giuristi possono ritenere insignificante, ma che è invece basilare per intendere la portata interpretativa di un testo normativo. Del resto, lo stesso Liparulo è giurista e moltissime sue glosse interpretano il pensiero di Isernia, con larghissima integrazione di scritti successivi di giuristi regnicoli e non regnicoli. È però vero, come già notava il Giustiniani che a volte il Liparulo è stato accusato di aver frainteso il pensiero di Andrea160, ma il punto è che nessuno ha mai avuto in tasca la verità di quel pensiero. Non riguarda fraintendimenti, ma sviste farsesche l’attribuzione ad Isernia delle glosse del Liparulo161. Noto piuttosto che in quest’opera del Liparulo, e in altre ancora successive, come per fare un esempio insigne, nei Rationalia del Favre, e, a differenza di quanto avviene per le letterature classiche, la ricognizione filologica del testo non è per nulla dissociata dal sapere giuridico, cioè l’esigenza d’un testo giuridico corretto è in funzione della retta interpretazione giuridica. Si tratta di una ‘resistenza’ che non può essere sottovalutata e ch’è monito per diverse incaute avventure attuali. Se mai, si può notare un’altra inclinazione nel lavoro del Liparulo; e cioè l’esigenza di conoscere storicamente: egli ad esempio attribuiscea Odofredo (in forza di scrittori di diritto comune) la summa feudistica Cum natura, usata dall’Isernia162 e, in realtà di incerta paternità; è un interesse antiquario, che non incide affatto nella pratica endogiuridica di produzione della verità dottrinale per via interpretativa, e non matura, com’era avvenuto ad esempio alcuni lustri prima in Marino Frezza (Freccia), in quella che i teorici dell’interpretazione giuridica definiscono come ‘interpretazione originalistica’: cioè la comprensione del significato originario di una legge per ben comprenderne le mutazioni evolutive. L’esperienza filologica che Liparulo fa sul testo feudistico di Andrea, non è, come ho detto, senza precedenti; ma qui interessa soltanto fare un preciso riferimento a Bartolomeo Camerario, che ho già citato. Nelle sue opere, il Camerario († 1564) fa cenno più volte al suo lavoro su questo commento iserniano. Nella sua opera feudistica più importante, pubblicata una prima volta nel 1558, durante l’esilio romano, ricorda di aver passato tre anni «in castro Petrae Pulcinae prope Beneventum» lavorando per 16 ore al giorno «quasi in carceribus mancipatus» per stabilire un testo corretto dell’opera iserniana avvalendosi di «triginta codices antiquos», e per comprenderne «funditus eius mentem»; si tratterebbe di un lavoro giovanile, precedente i 24 anni dei suoi complessivi incarichi istituzionali e professorali, e che egli, ancora nel 1558, sperava di pubblicare163. Altrove dichiara di essersi servito di 24 manoscritti e ascrive a suo merito di aver passato la vita a rileggere Isernia «et propterea monoculus factus sum»164. Sembra strano che a distanza di non molti anni due studiosi intraprendessero lo stesso identico lavoro. Ma non è tutto: la citazione, che ho fatto sopra, dell’opera attribuita a Odofredo non è affatto casuale, perché alcuni anni dopo l’edizione iserniana del 1571, un nipote di Leonardo Liparulo, e cioè Francesco Liparulo, pubblicò questa Summa, e in un importante passaggio introduttivo ci dà questa notizia, non sfuggita al Ciarlanti e ad alcuni altri165 e che ha una certa importanza «cum pluries retulisset mihi veneranda memoria patrui mei episcopi Nicoteriensis [appunto Leonardo], quod dum in humanis ageret esset magna familiaritate coniunctus cum Bartholemeo Camerario tantundem Beneventano, viro… in nostra civili sapientia et praesertim in feudali materia aetate sua nemini paenitus secundus…vidit apud illum in eius bibliotheca duodecim magna volumina prisco more compaginata, omnia, ut credebatur, propria manu ipsius authoris…scripta, tam in civili iure, quam canonico, de quibus typis excudendis lucique tradendis fuerat in spem»166. Non v’è cenno all’opera feudale, ma è evidente che il Camerario e il Liparulo erano in contatto tra loro167. Tutto questo però non basta a sostenere che il secondo s’avvalesse dei lavori del primo. Anzi, per poco che conti, si può provare che nella tormentatissima questione del testo della additio Et hoc supplendo a L. F. II 50 De natura successionis feudi, mentre il Camerario sostiene che la lettera ‘F’ che irrompe improvvisamente nel testo interrompe l’additio168, il Liparulo invece la fa lungamente proseguire169, benché il testo proposto dall’uno sia assai poco divergente da quello proposto dall’altro. Proporrei un’ultima considerazione, di notevole importanza, ma che posso affrontare per cenni soltanto. Ho potuto confrontare le tre edizioni a me direttamente note dell’opera di Isernia commentata dal Liparulo, che sono, del resto, tutte online. Alla fine della princeps del 1571 si leggono due carte, fittissime, di Errata e di Scholia omissa, cui fa seguito l’imprimatur di ‘Petrus Dusina Vicarius Generalis’. Questi errori e omissioni170 sono stati fatti rifluire nel testo nelle due edizioni successive, la lionese del 1579 e la francofortese del 1598; l’inserimento ha però prodotto una serie di altri refusi e, ad ogni modo, è necessario che io segnali un ben peggiore difetto. I due editori più tardi, che ad una analisi approssimata e non metodica, sembrano dipendere l’uno dall’altro, non rispettano fino in fondo l’impianto che il Liparulo ha dato all’unica edizione stampata lui vivente: quella appunto del 1571. Basti un esempio, che non serve a dare una risposta definitiva, ma indubbiamente serve a mettere sull’avviso. La glossa ‘g.burgensis’ di Liparulo a L.F. II 5 Qualiter vasallus rinvia ad altra glossa, a L. F.II 7 De nova fidelitatis forma ma senza specifica indicazione di incipit: «vide Iser. de nova forma fidelitatis nr. 5 et quae ibi dixi» (ed. 1571 c. 88r); e in effetti nel luogo ad quem c’è la glossa ‘k. tenentes’ che parla dei ‘burgenses’ (ed. 1571 c. 93rb). Invece nelle altre due edizioni c’è la glossa ‘burgensis’ (ed. 1579 c. 87va; ed. 1598 p. 220a), ma della glossa ‘tenentes’ non c’è più alcuna traccia (ed. 1579 c. 92vb; ed. 1598 p. 232); anzi in quest’ultima pagina ad quem delle due edizioni, ci sono molte omissioni di glosse presenti invece nel 1571, ma ci sono anche glosse che nel 1571 non sono presenti, mentre altre sono state spostate. Purtroppo c’è anche una variante nel testo stesso di Isernia, benché minima: nel 1571 al nr. 6 di L. F.II 7 si dice (c. 93rb) «homagium vero quod dicitur hominium»; ed invece nelle altre due edizioni si dice «homagium vero quod dicitur hominum alias hominium» (ed. 1579 c. 92vb; ed. 1598 p. 232a) con tanto di glosse sia a ‘hominum’ che a ‘hominium’ che nell’edizione del 1571 difettano. La cosa più inquietante è che nell’elenco di errata del 1571, non è minimamente segnata l’integrazione testuale ‘hominum alias’ presente nelle edizioni successive. Come spiegarlo? Forse il Liparulo, prima di morire, avrà stilato una ulteriore lista di errori e integrazioni passata poi, anch’essa, nelle edizioni successive? Però di tutto questo non c’è alcuna specifica indicazione da parte degli editori. È perché poi eliminare glosse importanti come la gl. ‘k. tenentes’ alla quale si rinvia da glossa sopravvissuta? Forse un ripensamento di Liparulo? oppure siamo di fronte a spregiudicate operazioni dei nuovi editori? A mio modo di vedere è prudente attenersi alla edizione del 1571 ch’è certamente in vita autoris, magari accertando lo stato testuale sulla base della lista di errata e omissa che ho indicato. In conclusione dò piuttosto notizia di una rarissima edizione in 18 carte non numerate, anch’esse in folio, come la edizione del 1571, contenenti un indice di ‘glosse e scolii’, come son detti, di Nardo Liparulo ad Isernia, dedicata da un di lui pronipote Alessandro Liparulo, ‘episcopus Guardiensis’ (Guardialfiera in Molise), ma anche, referendario apostolico nel 1624171, al cardinal Francesco Barberini con sola indicazione della data editoriale, al 1634. Si tratta di un’edizione del tutto, mi pare, sconosciuta, e nella quale campeggiano, tra altri, alcuni componimenti celebrativi in greco di Francesco Arcudi, uomo anch'egli vicino ai Barberini172. L'operetta presenta solo un indice tematico, redatto dal pronipote, dell’opera dello zio; ma si comprende che l’intento era forse di fornire un’edizione corretta ed integrata del commento iserniano di Nardo Liparulo, con additiones di questo pronipote Alessandro.
Notes
1 Andrea da Isernia, In Usus Feudorum Commentaria, Neapoli, in aed. N. Liparuli, 1571, nei Praeludia feudorum nr.15-26, cc. 2ra-4ra, e in L. F. II, 1 (de feudi cognitione) § Obertus nr. 1, c. 77r e in altri luoghi.
2 G. Vallone, Iurisdictio domini. Introduzione a Matteo d’Afflitto ed alla cultura giuridica meridionale tra Quattro e Cinquecento, Lecce, Milella, 1985, pp. 37, 106-107 (sul de Luca), 119, 140. Un esempio di fraintendimento – un esempio tra i molti possibili- è indicato nella nota 61 delle pp.140-141.
3 Indico alcuni suoi contributi per recingere l’attenzione di lustri al tema: J.-P. Boyer, Humilier l’Empire. Le paradoxe des romanistes du royaume de Sicile-Naples (fin XIIe-mi-XIVe siècle) in Gli spazi del potere. Strategie e attributi dell’imperialità a c. di C. Leveleux-Teixeira, F. Delle Donne, Potenza, Basilicata University Press, 2023, pp. 49-91; Science et conscience. Bureaucratie et prédication à Naples (première moitié du XIVe siècle circa) in ‘Micrologus’ 31(2023) pp. 173-238; Le fisc d’après les juristes napolitains (XIIIe-début XIVe siècle) in Périphéries financières angevines, a c. di S. Morelli Roma, École Française, 2018, pp. 21-62; Ecce Rex tuus. Le Roi et le Royaume dans les sermons de Robert de Naples in ‘Revue Mabillon’ 67 (1995) pp. 101-136; La ‘foi monarchique’. Royaume de Sicile et Provence (mi-XIIIe-mi-XIVe siècle) in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a c. di P. Cammarosano, Roma, École Française, 1994, pp. 85-110.
4 Lo studio del potere della parola, Boyer lo rivolge in particolare al grande giurista coevo d’Isernia, e cioè a Bartolomeo da Capua, ma esaminato nella sua arte di ‘sermonneur’. Tra i moltissimi saggi a lui dedicati, indico, perché importante anche per Isernia: Parler du roi et pour le roi. Deux ‘sermons’ de Barthélemy de Capoue, logothète du Royaume de Sicile in ‘Revue des Sciences philosophiques et théologiques’ 79 (1995) pp.193-248.
5 Profili di lettura in G. Vallone, Istituzioni feudali dell'Italia meridionale tra Medioevo ed Antico Regime, Roma, Viella, 1999, pp. 57s.
6 Il brano è nel commento alla const. III 23 Honorem di Federico II, e si legge agevolmente nella ed. Cervone. Constitutionum Regni Siciliarum libri III..., Neapoli, sumpt. A. Cervonii, 1773 p. 346b. Lo richiama assai opportunamente D. Novarese, Andrea d’Isernia, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Roma, Ist. Enciclopedia It., 2005, vol. I, pp. 38-41:40, che nota pure come la glossa ordinaria al Liber, almeno in questo punto, esprime ancora l’ordine federiciano.
7 Per la dottrina della cohaerentia, caduta come un sasso nello stagno degli anacronismi e tuttora accuratamente scansata: G. Vallone, Iurisdictio domini pp. 110s., 138s. e s.v. Per il suffeudo quaternato, il mio Interpretare il Liber Augustalis in ‘Historia et ius’ 13 (2018) pp. 1-74: 37-40.
8 Un inizio teorico è di G. Vallone, La costituzione medievale tra Schmitt e Brunner in ‘Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno’ 39 (2010) pp. 387-403, tradotto in polacco col titolo Ustrój średniowieczny: od Schmitta do Brunnera in Antynomie Polityki, Rzeszów, Uniw. Rzeszow., 2010, pp.68-79. Indico altri miei saggi pubblicati in seguito sull’originarietà dei poteri subordinati, su Bodin, su Loyseau, su Montesquieu, sulla concezione proprietaria del potere.
9 G. Vallone, Le opere di Andrea da Isernia e l’edizione napoletana del commento del Liparulo in Scritti di Storia del diritto e bibliografia giuridica offerti a Giuliano Bonfanti, a c. di U. Petronio, O. Diliberto, Macerata, Biblohaus, 2012, pp. 339-351. Edito in forma semplificata come Andrea da Isernia in Dizionario biografico dei giuristi italiani (sec. XII-XX), a c. di I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M. N. Miletti, Bologna, il Mulino 2013, vol. I, pp.61-63. Sono inutili o errate le tre integrazioni bibliografiche a questa mia voce, proposte in Les grands officiers dans les territoires angevins, Roma, École Française, 2017 p.58 nt. 43; una delle tre è un rinvio o citazione passiva (cioè meramente recettiva) dell’opera del Palumbo, come ce n’è a decine; le altre due non riguardano Andrea d’Isernia.
10 L. Palumbo, Andrea d’Isernia. Studio storico-giuridico, Napoli, Tip. R. Università, 1886. Quasi certamente dello stesso autore, come dimostra l’identicità dei documenti usati, è lo scritto (pseudonimo) di F.M. de’ Casamassimi, Per Andrea d’Isernia, in ‘Rassegna pugliese di scienze, lettere, arti’ 2 (2,1885) pp. 27-28. Dal Palumbo dipendono alcuni scritti successivi, di tipo divulgativo, così A. Prologo, Due grandi giureconsulti del sec. XIII: Andrea de Barulo e Andrea da Isernia, Trani, Vecchi, 1914; C. Passarelli, Cenni sulla vita e sulle opere dell’illustre giureconsulto Andrea d’Isernia, Isernia, Colitti, 1916. Vorrei notare che l’opera del Palumbo non è solo biografica, ma presenta anche un importante studio sull’istituto delle successioni feudali nel Regno, da Isernia (e prima) in poi.
11 G.M. Monti, Sul testo dei ‘Riti della Magna Curia dei Maestri Razionali’ e su Andrea d’Isernia (1929), nella sua silloge forse più importante Dal secolo Sesto al Decimoquinto. Nuovi studi storico-giuridici, Bari, Cressati, 1929, pp. 253-291: 269-273, 276-278 (in queste pagine è rifuso l’altro suo studio del 1928 Su Andrea d’Isernia e la successione feudale).
12 Gli scritti biografici principali sono: Nardo Liparulo, Vita Andreae Iserniensis..ex..eius dictis in Andrea da Isernia, In Usus Feudorum Commentaria, c. [2r-3v] (ed. 1571); Gio. Vincenzo Ciarlanti, Memorie historiche del Sannio, Isernia, C. Cavallo, 1644, pp. 365-366, 372-373, 374, 377-379, 388, 390, 391, 397, 398, 399-400, 416; B. Chioccarello (†1647?), De illustribus scriptoribus qui in civitate et regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque MDCXXXXVI floruerunt, Neapoli, ex off. V. Ursini, 1780, pp. 33-37; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, vol. II, Napoli, Simoniana, 1787, pp. 161-168; F. Calasso, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 3 (Roma, Ist. Enciclopedia It., 1961) pp. 100-103; Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte, hrsg. von H. Coing, vol. I, München, C. H. Beck, 1973, p. 273 e ad ind.; M. Bellomo in Juristas universales, dir. R. Domingo, vol. I, Madrid-Barcelona, M. Pons, 2004, pp. 485-487; D. Novarese, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, pp. 38-41; Römisches Recht im Mittelalter, vol. II: Die Kommentatoren, hrsg. von H. Lange, und M. Kriechbaum, München, C. H. Beck, 2007 pp. 507-513.
13 Camillo Salerno, Praefatio (1567) a Consuetudines Neapolitanae cum Glossa Napodani, Neapoli, sumpt. A. Cervonii, 1775, pp. IX-X. Il Salerno in questa pagina riporta che secondo alcuni dalla famiglia ‘de Rampinis’ sarebbe derivata anche la famiglia ‘Corbo’ di Sulmona, ond’è che C. de Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli (vol. III, Napoli, h. Roncagliolo, 1671, pp. 115-120) tratta «della famiglia d’Isernia e Corvo».
14 E. Jamison, I Conti di Molise e di Marsia nei Secoli XII e XIII, Casalbordino, De Arcangelis, 1932 pp. 92-93. Il personaggio è ben noto alla migliore antiquaria: Ciarlanti, Memorie historiche pp. 330, 339 (sarebbe padre di una Maria, moglie, e non mi pare si sapesse, del celebre giurista Benedetto da Isernia).
15 C. Minieri Riccio, Notizie storiche tratte da 62 registri angioini dell’Archivio di Stato di Napoli…, Napoli, Rinaldi e Sellitto, 1877, p.144. Il Minieri riscontrando per documenti l’esistenza di un ‘Niccolò de Rampinis giudice’ ne fa per congettura (forse mutuata dal Liparulo) un fratello di Andrea da Isernia iunior, noto nipote omonimo del giurista, estendendo a costui (e all’avo) il cognome dell’altro. Invece il Palumbo (alla nota successiva) indicherà in contrario (pur senza citare Minieri) un paio di documenti, in uno dei quali questo Nicola è citato unitamente al defunto Andrea senior senza alcuna notazione di parentela.
16 L. Palumbo, Andrea d’Isernia, pp. 85, 369-370.
17 C. Minieri Riccio, Studî storici su’ Fascicoli Angioini dell'Archivio della Regia Zecca di Napoli, Napoli, Detken, 1863 p. 71; L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 91 e nt. 11.
18 Se fosse vero che è appunto questa casa di Andrea la «domus domini Andreae» distrutta dal terremoto del 1349 (Ciarlanti, Memorie historiche p. 398), possiamo dedurne che il Salerno, nel 1567, vedeva una casa ricostruita; ma vedeva al tempo stesso la chiesa dell’Annunziata (oggi, come la casa stessa, non più esistente) e dunque non è del tutto chiaro cosa intende la filopatrìa attuale di Isernia, sostenendo che la chiesa era stata eretta sulla casa del giurista; forse s’intende un ampliamento successivo (al 1567) della chiesa a spese dell’abitazione. In Napoli, invece, Andrea aveva una casa «in platea Nidi», probabilmente edificata, dopo un contenzioso, «in curti… prope… ecclesiam (Sancti Nicolai)»: L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 93-94, 294-295, 303. La ricorda Fr. de’ Pietri, Dell’historia napoletana libri due, Napoli, Montanaro, 1634, pp. 81-82.
19 L. Palumbo, Andrea d’Isernia p. 87; e per Letizia pp. 91, 286-287.
20 Il Palumbo (pp.89-91,104) trova riscontri documentali per questi figli di Andrea senior, e cioè: Roberto (il più noto, padre almeno di Andrea iunior [‘Andreucius’]), Landolfo (padre di un Andrea e di un Nicola), Tommaso, Nicola (abate), Giovanna e Letizia. Il Monti (Sul testo dei ‘Riti’ pp. 272-273) notando, grazie al Palumbo (p. 104), che nel 1316 è tutore di Andrea iunior un Filippo d’Isernia, giurista, ipotizza, che anche costui sia stato figlio di Andrea senior (parla anche di ‘parentela’); anche il Ciarlanti sembra incerto su Filippo, ma in un caso su due ne fa un figlio del senior (Memorie pp. 371, 393). Ciarlanti però mi pare non dica che anche un Matteo e un Cicco d’Isernia siano figli di lui (pp.364, 396) come gli fa dire Palumbo. Tommaso e Nicola di Landolfo sono ricordati per i loro beni feudali a 7.III.1329: S. De Crescenzo, Notizie storiche tratte dai documenti angioini…in ‘Archivio storico per le province napoletane’, 21 (1896) pp. 388-389. Quanto a quell’Alferio d’Isernia, professore e magistrato variamente attestato, rinvio all’incerta, ma poco notata, indicazione di Liparulo c.[3r], ma aggiungo che suo padre si chiamava ‘Rogerius’, ed è possibile che fosse parente di Andrea: divenne Maestro Razionale forse appena morto lui; così dall’Archivio di Stato di Napoli (=ASN) negli spogli del Sicola (Repertorium C4, c. 210v [da Reg.1311-1312 c. 117v]; c. 534v [da Reg. 1316B c. 8r]. A metà Cinquecento, il giurista e antiquario giuridico Marcello Bono ebbe in uso un manoscritto con singularia già di un Leonardo ‘de Isernia’ e prima di Andrea. Ne dico in seguito.
21 C. Minieri Riccio, Studî storici su’ Fascicoli Angioini p. 71 (e altro su Andrea pp. 63, 64, 65). La data del 1286 parrebbe confermata da uno spoglio dal Borrelli indicato dal Palumbo, Andrea d’Isernia p. 92 e nt.1.
22 In uno dei suoi singularia (nr.IX): Singularia doctorum, vol. II, Venetiis, apud haer. H. Scoti, 1578, cc. 185r-185v: 185v; edito anche da M. Bono, Glossa aurea excellentissimi doctoris D. Bartholomei de Capua… Lugduni, apud haer. Ia. Iuntae, 1556, p.464a.
23 L. Palumbo, Andrea d’Isernia. Studio storico-giuridico, pp. 86-87.
24 G. M. Monti, Le origini della Gran Corte della Vicaria pp.121-251: 164 nt. 2.
25 G. M. Monti, L'età angioina in Storia dell’Università di Napoli, Napoli, Ricciardi, 1924, pp. 17-150: 91 (anche 80,133). Monti aggiunge alla documentazione indicata o prodotta dal Palumbo anche nuove indicazioni, sempre dall’archivio angioino. Si possono trovare a stampa anche altre notizie da documenti perduti, ma sempre all’interno del periodo circoscritto; così in N. Barone, La ratio Thesaurariorum della Cancelleria angioina (1885), Bologna, Forni, 1974, p. 44: il 23. I.1293 si ordina il pagamento dello stipendio maturato come giudice della Magna Curia a Andrea d’Isernia iuris civilis profexori.
26 Il documento del 1290 si legge in Palumbo, Andrea d’Isernia p. 277, ma è noto a tutti i migliori biografi, ad esempio al Ciarlanti Memorie historiche pp. 365, 378 (con confusione negli spogli). Quello del 1296, ch’è di grande importanza per il suo complesso formulare, ancora in Palumbo (pp.288-292).
27 Indico di seguito gli autori che hanno dato a questo profilo di acquisti base documentaria tendenzialmente autonoma, benché convergente nei risultati: Ciarlanti Memorie historiche pp. 366, 378, 390-391; M. Camera, Annali delle Due Sicilie, vol. II, Napoli, St. Fibreno, 1860 p. 256; Palumbo, Andrea d’Isernia pp.93, 95-97 (che mette a frutto anche le indicazioni dei precedenti autori e pubblica in coda diversi documenti). Uno degli acquisti (per donazione) al 27.VII. 1305, documentato da Palumbo, presso Somma non è in feudo ma in burgensatico (v. anche D. Maione, Breve descrizzione della regia città di Somma, Napoli, Solofrano, 1703) p. 45.
28 Non è mia intenzione ripercorrere la vicenda dei figli di Andrea. Imparentamenti con i di Sangro sono evidenti sia per i due figli Roberto e Landolfo (lo sappiamo in particolare grazie al Monti) sia per la figlia Giovanna, nuora di una di Sangro, e, per matrimonio, baronessa di Forli, feudo passato poi, attraverso una sua figlia, ai Carafa (de Lellis, Discorsi vol. III, pp. 114, 117) che tennero il paese fino all’abolizione della feudalità (e diversi beni anche oltre): i Carafa sono stati dunque i discendenti più duraturi del giurista. Il castello di Forli, già dei Carafa fino all’ultimo margine dell’Ottocento, è oggi proprietà della famiglia D’Andrea di Isernia e Pescara.
29 C. Minieri Riccio, Cenni storici intorno i Grandi Uffizii del Regno di Sicilia durante il regno di Carlo I d’Angiò, Napoli, Stab. Tip. Partenopeo, 1872, pp. 137-138. Per la data errata Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 92, 285s. Date esatte sono invece in Paola Maffei, Bartolomeo da Capua in Dizionario biografico dei giuristi italiani vol. I pp. 183-185: 183.
30 L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 101, 341s.
31 Si ricava da un regesto che mi pare ignorato e sopravvissuto nell’Archivio di Stato di Napoli (=ASN) in uno spoglio di C. de Lellis Notamenta vol. III p. 1558 (dal Reg. 1299 litt. B f. 16t).
32 D. Maffei, Giuristi medievali e falsificazioni editoriali del primo Cinquecento, Frankfurt am Main, 1979, pp. 7-12, 62-65.
33 Una notizia successiva, ma distante nel tempo, a me nota è del 2.VII.1299 quando il Re ordina a Andrea e a ‘Guillelmo de Ponciaco’ di far trasportare da Melfi a Napoli i registri di Carlo I con gli elenchi dei feudali in capite a Rege e delle loro prestazioni di servitia: C. Minieri Riccio, Saggio di codice diplomatico formato sulle antiche scritture dell’Archivio di Stato di Napoli. Supplemento I, Napoli, Furchheim, 1882 nr. 118 p.126.
34 Userò qui l’edizione critica di O. Rossini: Angeli Clareni Historia septem tribulationum Ordinis Minorum, Roma, Isime, 1999.
35 È inquisitore per l’anno di terza indizione (1304-1305). In quell’anno opera nell’area molisana e avverte, con lettera ‘valde curiosa’, il Giustiziere provinciale di non andare a Roccamandolfi, dov’era lui con 60 eretici, per timore che questi fuggano: G.M. Monti, Da Carlo I a Roberto di Angiò. Ricerche e documenti, Trani, Vecchi, 1936, pp. 241-265:247-254. La vicenda di Roccamandolfi («locum…maleficiis aptum») è ben nota al Clareno (Historia pp. 246- 249), e il barone, che favorisce l’inquisitore, dovrebbe essere un Roccafoglia, certo parente della Berlesca di Andrea. Sembra anche che Clareno motivi la ferocia dell’inquisitore con la umiliazione patita ad opera di Andrea d’ Isernia.
36 Angeli Clareni Historia pp. 244-245 (Quinta tribulatio, lib. VI). L’episodio è ben noto alla storiografia regionale, ad iniziare dal dotto arciprete d’Isernia, il Ciarlanti (Memorie pp. 371-373), ma piuttosto rigenerato in direzione di Andrea, che sarebbe stato amico, come forse fu, di Celestino V, oltreché suo compatriota, e avrebbe protetto i fraticelli assai più di quanto dice Clareno, ospitandoli in terre ‘deserte’ di sua proprietà. Se si vuole l’Isernia commentando i Libri Feudorum II 42 (De controversia inter dominum…), e in altri luoghi afferma, su basi scritturali (Sir.7, 6), «non debet quis pati esse iudicem si non potest virtute disrumpere iniquitatem» c. 206vb nr.4 (ed. 1571), ma il nesso è generico.
37 Sappiamo che Carlo II era notoriamente vicino ai Minori; indico i due documenti editi in F. Ehrle, Die ‘historia Septem tribulationum ordinis minorum’ des fr. Angelus de Clarino, in ‘Archiv für litteratur- und kirchen- geschichte des Mittelalters’ 2(1886) pp. 249-336:335-336. Il primo di questi (11.I.1300) era stato inoltrato anche ai Maestri razionali (l’istituzione alla quale apparteneva Isernia): una prassi forse analoga a quanto ci narra un poco confusamente Clareno per i fraticelli di Frosolone e per Andrea.
38 Notizie in S. Palmieri, La Cancelleria del Regno di Sicilia in età angioina, Napoli, Accademia Pontaniana, 2006, ad indicem.
39 L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 97s, 338 (qui il documento; del quale è fuorviante il regesto [si definisce Andrea «olim magnus camerarius»] nel Repertorium C 3 c. 514v del Sicola in ASN).
40 Il giusto fuoco della questione è forse intuito da R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, vol. I, Firenze, Bemporad, 1922, p. 99 e nt. 2, in base a un documento del 7.V.1309 edito dal Palumbo, Andrea d’Isernia pp.328-329; qui, alle pp. 330-333, 337 (per il 26, V; 30. V, e ancora 7.VI. 1309) sono documentate anche le richieste di Andrea.
41 L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 96, 334-336. In questa data il figlio Roberto (forse primogenito), era ancora vivo: sarà ferito a morte nella battaglia di Montecatini (29.VIII.1315).
42 Questo complesso incrocio di persone e di date, è stato finalmente chiarito da J.-P. Boyer, Parler du roi et pour le roi p. 198.
43 R. Caggese, Roberto d’Angiò vol. I, p. 103; alle pp. 99-111, 115-116 la ricostruzione del viaggio e della permanenza in Provenza.
44 J.-P. Boyer, Entre soumission au prince et consentement: le rituel d’échange des serments à Marseille (1252-1348) in Laville au Moyen Age, a c. di N. Coulet, O. Guyotjeannin, Paris, Editions du Comité des trav. hist. et scient., 1998, pp. 207-219: 217-219; tra i testimoni napoletani, col Siginolfo, anche Giovanni Pipino, Enrico Sanseverino, Riccardo Gambatesa, e altri. Il 24.VII. 1309 a Tarascona, col Re e la Regina, ci sono il Siginolfo e Matteo Filomarino. Isernia non è citato; C. Minieri Riccio, Genealogia di Carlo II d’Angiò re di Napoli, in ‘Archivio storico per le province napoletane’ 7 (1882), pp.201-262: 217. Il Siginolfo sarà a Napoli già nel settembre, e il da Capua ne fuggirà per evitarlo: C. Minieri Riccio, Cenni storici p.142.
45 Così W. St. Clair Baddeley, Robert the wise ad his heirs…, London, W. Heinemann, 1897 p. 220, in base all’assai meno esplicito Palumbo (Andrea d’Isernia pp. 97-99). Se fosse andata così, potrebbe essere stato Andrea a redigere la notizia (senza indicazione d’estensore) della incoronazione di Roberto il 3 agosto, comunicata, in quello stesso agosto, in un latino meno aulico di quello di Bartolomeo, da Avignone ai Giustizieri del Regno: C. Minieri Riccio, Saggio di codice…Supplemento II, Napoli, Furchheim, 1883 nr. 49, pp. 54-55.
46 F. Guichard, Essai historique sur le Cominalat dans la ville de Digne ..., vol II, Digne, V. A. Guichard, 1846, nr. 44 pp. 105-108 (tra i testimoni meridionali anche Enrico Sanseverino Nicola Caracciolo e Matteo Filomarino, allora viceprotonotario, e che sarà presente in Provenza pure in anni successivi). La fonte è segnalata da J.-P. Boyer.
47 F. Guichard, Essai historique vol. II, nr. 46 pp.110-118 (con Nicola Caracciolo e Matteo Filomarino).
48 G. M. Monti, La dominazione angioina in Piemonte, Torino, Stab. Tip. Miglietta, 1930, pp. 120s.; 351s.
49 C. Minieri Riccio, Genealogia di Carlo II d’Angiò pp. 220-221.
50 Ciarlanti, Memorie historiche pp. 378 (dal Reg. Ang.1316 E c.77, e dal Reg. Ang.1317 D. c. 124 e altri), 388: ma la frase citata è a p. 400, e non s’indica alcun documento. Anche G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, vol. I, Napoli, Di Simone, 1753, p. 170 fissa la morte al 1316, sulla base del Reg.Ang. 1316 B c. 124. Il Palumbo (pp.101, 102 e nt 1) per verificare le fonti del Ciarlanti ha riscontrato solo il Reg. Ang.1316 C che non mi pare tra quelle che il Ciarlanti indica.
51 L. Palumbo, Andrea d'Isernia. Studio storico-giuridico, p. 101s.
52 G. M. Monti, L’età angioina in Storia dell’Università di Napoli, p. 91 (dal Reg. Ang. 1316 E c. 195). È prudente attenersi a tale proposta perché il Monti sembra aver riscontrato e specificato o corretto le indicazioni del Ciarlanti. È anche vero che il Monti (Sul testo dei ‘Riti’ p. 263), sembra indulgere al luglio 1316 per dichiarata influenza del Ciarlanti, ma il Monti dimentica che su quella data lo stesso Ciarlanti era incerto, poiché pensava, e l’ho indicato sopra, che Isernia potesse essere morto anche ‘verso la fine’ del 1315.
53 E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale (1966), Roma, Bulzoni, 1982, pp. 42-67. E naturalmente il saggio di F. Calasso, I Glossatori e la teoria della sovranità (1945), Milano, Giuffrè, 19573, p.134s., 155s.
54 E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, vol. I, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 151, 164s., 270s, con importanti riflessioni sulla dipendenza del pensiero di Andrea da san Tommaso, e da Innocenzo IV, e sul senso legalitario delle sue posizioni antifiscali (in tema di tributi, ma anche di successioni feudali).
55 Isernia in L.F. II, 55 (56 Quae sunt regalia) nr. 16 c. 288vb (ed. 1571). I giuristi posteriori noteranno il punto notevole di questo pensiero d’Isernia, nel fatto ch’egli non ritiene questa causa come presunta dall’azione regia in sé: Goffredo de Gaeta in Ritus Regiae Camerae Summariae Regni Neapolis...cum lectura.. Goffredi de Gaeta, Neapoli, ex typ. J. Raillard, 1689, p. 91b nr. 56.
56 Ad esempio per la derivazione da fonti francesi della sua idea e formula della ligeitas: G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 108-109; quindi R. Del Gratta, Feudum a fidelitate. Esperienze feudali e scienza giuridica dal Medioevo all'età moderna, Pisa, ETS, 1994, pp. 120,121,122, 231, 232 (da meditare).
57 Andrea d’Isernia dà un carattere alla dottrina feudistica del Regno meridionale che resterà tipica del Regno e condivisa fino almeno al termine del Seicento adottando la dottrina della cohaerentia territorio della giurisdizione (forgiata sulla figura giuridica del castrum) ed elevando il feudale a iudex ordinarius in civilibus del suo feudo in ragione del territorio, in connessione rivelatrice con l’ effettiva intensificazione dei poteri feudali di giurisdizione che si determina all’avvento della dinastia angioina e in particolare con la guerra del Vespro, e come dichiara il capitolo Item ad inquisitionem del 1282. Si tratta dunque d’una teoria, ma d’una teoria espressiva di pratiche reali (dunque più propriamente di una ‘dottrina’), e si pone perciò a strumento ermeneutico indispensabile di quelle pratiche e del tratto peculiare del potere feudale nel Regno: G. Vallone, Iurisdictio domini, pp.107s., 133s. Isernia opera la fondazione di questa dottrina in un luogo ben preciso del suo grande commento feudale, in polemica con Jacopo di Belviso, ma la applica di frequente anche nel commento al Liber di Federico II.
58 In un brano del commento feudale (Praeludia feudorum nr. 21 c. 2vb, ed. 1571) Andrea sembra rinviare ad un’opera o scritto suo di taglio filosofico-aristotelico sulla ‘civilis sapientia’: «hoc alibi plene tractavi; hic plus non prosequor quia non est de materia». Elenca le citazioni di Tommaso in Isernia il Liparulo (c. [1v] ed. 1571). Uno sviluppo notevole in E. Conte, Servi medievali: dinamiche del diritto comune, Roma, Viella, 1996, pp. 163-164.
59 Nel periodo che va dal D’Andrea al Rapolla ciò sarà considerato addirittura fuorviante: F. Rapolla, Difesa della Giurisprudenza, Napoli, de Simone, 1744, p. 160. L’opera feudistica del d’Andrea è, per il profilo che lo interessa, in quasi costante attacco a quella di Andrea d’Isernia, ed in questo rompe una tradizione di generale osservanza. Riflessioni anche su questo punto si trovano nel mio scritto Pratica forense e ‘regula veri’ al tempo del Vico in Serta iuridica. Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a F. Grelle, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, vol. II, pp. 819-852.
60 Si tratta, come ho detto altre volte, di un processo di elaborazione endofeudistica; un esempio notevole nel commento alla const. II 6 Forjudicatorum p. 207 (ed. Cervone).
61 Rinvio ai commenti di Isernia e di Bartolomeo da Capua alla const. III, 30 Minoribus, pp. 387-390 (ed. Cervone), con questioni aggiuntive. Il capit. Provisum nella redazione del 1317 (ne tratto in seguito alle nt.77-79) fissa la maggiore età per il giuramento (al Re) ai 14 anni; Isernia, all’epoca già morto, non può farvi riferimento, pur conoscendo questa legge in una redazione indubbiamente anteriore: segno che la parte della legge relativa alla maggiore età risale al 1317 o a tempi comunque successivi alla morte di Andrea.
62 E. Sthamer, Studien über die sizilischen Register Friedrichs II (1920-1930), in Beiträge zur Verfassungs- und Verwaltungsgeschichte des Königreichs Sizilien im Mittelalter, Aalen, Scientia Verlag, 1994, pp. 75-131: 112; G. Vallone, Istituzioni feudali dell'Italia meridionale pp. 66s., 81s. Una notevole integrazione in O. Zecchino, La costituzione di Ruggero II. Ariano (1140), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023, p. 91 e nt. 3.
63 E. Cortese, Scienza giuridica, Regno di Sicilia: l’eredità di Federico II in Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. II pp. 638-644: 640.
64 Nardo Liparulo, Vita Andreae Iserniensis..ex..eius dictis cc. [2r-3v] della citata edizione del 1571.
65 In verità il d’Andrea, che si spinge a criticare Ciarlanti (seguito in questo dal Giannone) pur di sostenere che l’Isernia morì nel 1353 (al fine di avallare una certa interpretazione del pensiero feudistico di lui), sostiene anche che almeno una additio sia stata scritta da Isernia durante il regno di Roberto d’Angiò: Fr. d’Andrea [de Andreys], Disputatio an fratres in feuda nostri Regni succedant…,Neapoli, D.A. Parrino et A. Mutii, 1694, pp. 8, 17-18 (contro Ciarlanti); 18, 30-31 (per l’additio).
66 Il commento d’Isernia in L.F. I, 21 (22 Quo tempore miles) § Sancimus nr. 3 c. 67vb (ed. 1571); da qui E. A. Laspeyres, Über die Entstheung und älteste Bearbeitung der Libri Feudorum (1830), r. an. Aalen, Scientia Verlag, 1969, pp. 102-107: 104-105; seguito da E. H. Kantorowicz, De pugna. La letteratura longobardistica nel duello giudiziario, in Studi di storia e diritto in onore di E. Besta, II, Milano, Giuffrè, 1939, pp. 3-26: 23.
67 G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 184-186.
68 E. A. Laspeyres, Über die Entstheung p. 105 nt. 266; precisato in G. Vallone, Iurisdictio domini, p. 186 nt. 51.
69 L’Isernia in L.F. I, 18 (19 Imperator Lotharius) nr. 6 in fine, c. 58ra (ed. 1571): è inciso noto ai feudisti, e in particolare al d’Andrea Disputatio an fratres p.30. Non mi pare che lo siano gli altri due incisi in L.F. II 16 (De controversia feudi) nr.13 in fine c. 113ra; e l’altro in L.F. II 26 (Si de feudo defuncti militis), § Vasallus si feudum nr. 2 c. 143va (ed. 1571).
70 Isernia in L.F. 25 (26 Si de investitura inter dominum) § Praeterquam nr. 11 c. 74rb. Di questo rinvio inconcluso si accorse anche Matteo d’Afflitto nella sua dec. 304 nr. 15 (in una qualunque delle edizioni delle sue Decisiones). Il d’Afflitto congettura che qui Andrea rinviasse ad un suo più ampio intervento sul Codice.
71 G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 186-187 nt. 54.
72 Lo si legga in D. Maffei, Giuristi medievali pp. 84-89. Inoltre il Belviso nei Commentarii in Authenticum et Consuetudines feudorum (ed. 1511; r. an. Bologna, Forni, 1971), nella parte feudale afferma (c. 82va) di aver letto l’opera otto volte: segno che il consolidamento del commento feudistico ha preceduto quello per le altre collationes oppure è indice forse di un lungo lavoro di revisione dell’insieme.
73 Tuttavia nel commento feudistico, il riferimento costante al diritto feudale del Regno, con richiami al testo delle altre collationes, non avrebbe un gran senso se ambientato fuori dal Regno, e si spiegherebbe meglio immaginando una lettura napoletana dell’Authenticum, o addirittura degli ‘usi feudali’. Origlia (Istoria p. 169) avanza questa ipotesi poggiando sull’affermazione di Belviso di aver letto otto volte la materia feudale (v. nota precedente), anche se il Belviso non indica le sedi di questa lettura. Comunque a smentire l’ipotesi non conta molto la convinzione di Matteo d’Afflitto di essere stato il primo a tenere una lettura ordinaria sui feudi. Sulla questione: E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli tra Quattro e Cinquecento in Scuole diritto e società nel Mezzogiorno medievale d’Italia vol. I, Catania, Tringale, 1985, pp. 33-134: 96 e nt.174, e già, con maggior cautela, Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di un ceto medievale, in Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia, Editografica, 1982, pp. 195-281: 274-275 nt. 280.
74 Rinvio a G. Vallone, Iurisdictio domini, pp.110-114, 182-190, sulle dottrine divergenti dei due giuristi, in particolare di Andrea d’Isernia, e sulla datazione dell’additio (il brano riportato è a p.189 nt.62) ch’è basilare per la grande teorica iserniana della cohaerentia territorrio iurisdictionis. Continuo a ritenere possibile la presenza a Napoli del Belviso nel 1303, perché G. Origlia, Istoria, vol. I p.169 lo afferma per due volte da un registro angioino (‘dall’archivio’ dice Savigny), indicato con ‘1303’ senza lettera individuativa ma credibile (nell’inventario del Capasso i due registri ‘1303’ A, D, vanno dal settembre 1303 in poi).
75 Andrea d’Isernia in L.F. II, 54 (55 De prohibita feudi alienatione per Fredericum) § Nec dominus feudi nr. 44 cc. 270rb-270va (ed. 1571). La lettera pontificia del 1315 è edita da W. St. Clair Baddeley, Robert the wise pp. 520-522.
76 Si tratta dell’additio nello stesso titolo di LF II, 54 (55) § Praeterea si inter duos nr. 84-92: 90, cc.281rb-283ra: 282va (è la stessa additio del confronto col Belviso). Per Biagio da Morcone, per altri brani d’Isernia e per la sua inclinazione a non citare: G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 105, 118.
77 Andrea d’Isernia, commentando LF, Praeludia nr. 22 cc.2v-3r (ed. 1571).
78 R. Trifone (ed.), La legislazione angioina, Napoli, Lubrano, 1921, pp. 176-178 (nr. 102).
79 Andrea d’Isernia, nel commento ai LF, II, 21 (22 Quo tempore miles) § Sancimus nr. 2 c.62v (ed. 1571). Commentando questo brano, il Liparulo indica gli altri luoghi dove Isernia utilizza la disposizione, e cita anche il Capece, il Frezza e il Camerario (per il quale bisognerebbe fare un diverso discorso). Ho riscontrato tutte queste citazioni, che è inutile qui utilizzare. Ho però proposto uno sviluppo in precedenza nella nt. 61.
80 Un esame articolato della questione, con largo uso anche di testi di Isernia, è di M. Caravale, Federico II e il diritto comune, in Gli inizi del diritto pubblico, 2. Da Federico I a Federico II, a c. di G. Dilcher, D. Quaglioni, Bologna-Berlino, il Mulino- DunckerHumblot, 2008, pp. 87-108.
81 Angeli de Ubaldis Consilia, Francofurti, typ.A. Wecheli, 1575, cons. 110 nr 6, cc.73v-76r: 75va. La quaestio è classica. Può il fratello uterino succedere nei beni feudali che la sorella uterina defunta aveva ereditato dal proprio padre?
82 Per il pensiero di Baldo sul punto, il suo consilium edito dal d’Afflitto (notato già da Liparulo c. [2r] ed. 1571, e dal Chioccarello[37b]), e la quaestio di Alvarotti: G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 119-120, 124, 125 nt.8. Le citazioni che Baldo, nella sua opera feudistica, fa di Andrea sono meticolosamente elencate da M. Montorzi, Processi istituzionali. Episodi di formalizzazione giuridica…Saggi e documenti, Padova, Cedam, 2005, p. 311 nt. 84, 85. La figura del castrum che ha in cohaerentia il doppio imperio nelle infeudazioni, non è pero tipica del Regno (pp. 77, 85).
83 E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli p. 96; E. Cortese, Lo Studio di Napoli e la scienza giuridica dei tempi aragonesi in Le Carte Aragonesi, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004, pp. 3-30: 22. Sappiamo però assai poco della fortuna di Andrea nel periodo che va dalla sua morte fino all’età di Paride dal Pozzo.
84 Afferma Chioccarello, De illustribus scriptoribus p. 33b che i commentaria d’Isernia sui Libri feudorum «in Neapolitano gymnasio publice explanantur».
85 Questo giurista salentino, di tendenza filofeudale, scrive contro l’opera di Francesco d’Andrea, pochi anni dopo la sua edizione (1694): G.B. Manieri [Manerii], Propugnaculum Iserniense sive discursus apologeticus pro opinione Andreae de Isernia in const. Regni ut de successionibus..., Neapoli, ex typ. C. Porpora et N. Abri, 1702.
86 Si veda qui l’ultimo paragrafo.
87 Riflessioni più recenti di quelle tradizionali su quest’opera d’Isernia in G. Giordanengo, Les Feudistes (XIIe-XVe s.) in El dret comú i Catalunya. Actes del IIon Simposi Internacional, Barcelona, Fundació Noguera, 1992, pp. 119-120; C. Danusso, Baldo e i Libri feudorum, in VI Centenario della morte di Baldo, Perugia, Università degli Studi, 2005, pp. 289-311.
88 Fuorché, nel primo Cinquecento, Tommaso Diplovatazio, Liber de Claris Iuris Consultis, in ‘Studia Gratiana’, 10 (1968), pp. 211-212. Poi B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus p. 35 b; E. A. Laspeyres, Über die Entstheung, pp. 102-107: 106.
89 La notizia del 1506 è nell’importante censimento di O. Zecchino, Le edizioni delle constitutiones di Federico II, Roma. Senato della Repubblica (Ed. De Luca), 1995, p. 36. La edizione del 1789 è ora ristampata anastaticamente a cura di A. Romano, Messina, Sicania,1999 come Constitutionum Regni Siciliarum Libri III.
90 E. Cortese, Scienza giuridica, Regno di Sicilia p. 640. A me sembra necessario accogliere, in attesa di prova contraria, l’ipotesi che a Napoli fino a fine Quattrocento, il diritto regio, quello longobardo, quello feudale e quello consuetudinario napoletano, potessero essere stati trattati in repetitiones o quaestiones su punti specifici, e perciò incidentalmente, non in corsi ordinari: Cortese, Legisti, canonisti e feudisti p. 275 nt. 280. Ora viene esaminata la storia editoriale di questo commento d’Isernia, con riflessioni anche sul suo pensiero, da B. Pasciuta, La Lectura Peregrina di Andrea da Isernia e la costruzione editoriale degli apparati al Liber Augustalis in ‘Rivista Internazionale di Diritto Comune’ 31 (2020) pp. 175-197.
91 In realtà il Camerario sembra sostenere, sul punto, che una certa additio di Isernia che si aggiunge al commento feudale («lectura antiqua»), è addirittura anteriore ad alcuni brani del commento federiciano (dove si rinvia all’altro commento): Repetitiones feudales, Neapoli ex typ. Ia. Gaffari, 1645, pp. 150b nr.2; e nel Responsum finale proposto in forma di dialogo tra lui e Gian Angelo Pisanelli, pp. 209-236:218b-219a nr. 4, 219a nr. 6. Il Camerario è contrastato da Fr. d’Andrea, Disputatio an fratres p. 30 che a sua volta indica una citazione iserniana del commento federiciano nel testo (non in una additio) del commento feudale: l’ho già detto. In questa pagina e nelle seguenti Camerario propone anche il testo di alcuni brani feudistici dell’Isernia ‘emendati’ sulla base, egli dice, di 24 manoscritti da lui usati.
92 G. Vallone, Iurisdictio domini, p.186, con l’indicazione de i luoghi feudistici dove si cita il commento federiciano, e altro ancora.
93 Commentando la const. III 30 Minoribus di Federico II (ed. Cervone p. 387a); il brano è indicato dal Liparulo e usato da altri biografi. Il 1305 è di III indizione, ma datando il mese di dicembre, è possibile che Isernia avesse mutato l’indizione al primo settembre, secondo il computo bizantino, ferma restando (fino al primo gennaio, secondo il computo romano) l’indicazione dell’anno, è il cd. sistema misto di uso curiale. Nell’additio a questo brano (p. 385b), Gio. Angelo Pisanelli nota «dicto tempore iste Andreas de Isernia erat magister rationalis Regie Curiae…ut vidi in registro ipsius Caroli II».
94 Commentando la const. I 38,2 Statuimus di Federico II (ed. Cervone p. 86b), noto al Liparulo e ad altri; usato in modo pretestuoso dal d’Andrea.
95 B. Capasso, Sulla storia esterna delle costituzioni del Regno di Sicilia promulgate da Federico II, in ‘Atti dell’Accademia Pontaniana’ 9 (1869, ma 1871) pp. 379-502, ed in volumetto autonomo pp. 1-129: 79-85; L. Palumbo, Andrea d’Isernia, pp. 111-115; Iuris Interpretes saec. XIII, cur. E.M. Meyers, Neapoli apud F. Perrella, 1925, p. 230. Anche W. Sturnër (ed.), Die Konstitutionen Friedrichs II für das Königreich Sizilien (Mon. Germ. Hist., Const., t. II suppl.) Hannover, Hahn, 1996, p. 43s.
96 Matteo d’ Afflitto, In utriusque Siciliae Neapolisque Sanctiones et Constitutiones novissima Praelectio, Venetiis, apud I. Variscum et P. de Paganinis, 1588, in constit. II 20 Hostici (II, c. 43ra, nr. 26). Il Liparulo, gran conoscitore dei testi giuridici della dottrina medievale e napoletana, lo nota commentando l’Isernia c.[1v] (ed. 1571), e da lui gli altri.
97 La questione è trattata con saggezza e rimessa in sesto da L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 111-113, e del resto nei documenti da lui editi, c’è una sentenza (1303-1309), su delega regia, dell’Isernia e di altri, a favore della moglie di Giacomo, figlio di Bartolomeo da Capua, e un’altra, nel 1309, sempre su delega regia, su una controversia feudale di Bartolomeo da Capua (pp. 94-95, 301-317, 328-329) che ho già citato (alla nt. 40). Per il mito della rivalità, anche C. Pecchia, Storia civile e politica del Regno di Napoli, (1791-17943), vol. II, Napoli, Lombardi 1869, p. 348 (post lib. II, dissert. II §39).
98 Ho individuato due aggiunte (ma potrebbero essercene altre) del tardo commentatore Iacopo Aniello de Bottis alla const. III 27 (ed. Cervone pp. 366b, 371-372) che ho confrontato anche con l’ed. del 1590 (Venezia, N. de Bottis, pp. 262b, 266b), e vi si dice «Bartholomeus de Capua in tit. de succ. feudi dicit haec verba ut habeo in Andream de Isernia ad pennam»: una simile postilla su un manoscritto dell’Isernia, avrebbe potuto trascriverla chiunque, non necessariamente il da Capua in persona; il d’Andrea (Disputatio pp. 39-40) sospetta poi che possa non essere del da Capua.
99 R. Trifone (ed.), La legislazione angioina, pp. 171-172 (nr. 97).
100 Nel commento alla const. II 3 Poenam eorum di Federico II (ed. Cervone p. 200a); è noto a L. Palumbo, Andrea d’Isernia p.112 nt. 1 che ne fa uso cursorio.
101 R. Trifone (ed.), La legislazione angioina, pp. 213-214 (nr. 137); in particolare la nota esplicativa (p.213) e le note editoriali (p. 214).
102 Uno dei difetti funzionali di questo insigne lavoro, sommamente lodato da Giovanni Cassandro, è di aver omesso per questi capitoli o parti di capitolo da lui editi, l’ubicazione loro nell’edizione del de Nigris dove sono pubblicati anche i commenti degli antichi giuristi, in specie d’età angioina. L’effetto è che diversi studiosi, oggi, dell’età angioina, in genere privi di inclinazione giuridica, si avvalgono, opportunamente, del testo del Trifone, ma ignorando e credendo irrilevante ignorare i problemi di interpretazione antichi, e dunque i caratteri di vigenza reale delle leggi, che certo inconsapevoli interpretazioni attuali non riescono a cogliere.
103 La prima volta dall’otto giugno 1309: C. Minieri Riccio, Genealogia di Carlo II d’Angiò p. 216; R. Caggese, Roberto d’Angiò vol. I, p. 101.
104 M. Camera, Annali vol. II p. 304 «verso la fine di maggio»; R. Caggese, Roberto d’Angiò vol. II, Firenze, Bemporad, 1930, p. 71«il 15 giugno era già da qualche giorno a Napoli».
105 R. Trifone (ed.), La legislazione angioina, pp. 168-171 (nr. 96). G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 17 e nt.22, 23, 151 nt. 92, 186 nt. 53. Il capitolo è destinato agli ecclesiastici, ma esteso anche ai laici.
106 Questa grande questione, nel Regno ha il precedente, che rivela già tutta la forza di Federico II, della const. De resignandis privilegiis del 1220, con dei riflessi dottrinali per i quali resta valido, a parer mio, quanto in G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 141-144.
107 Indico almeno per il pensiero politico di Andrea d’Isernia, nelle sue varie articolazioni ed in particolare (ma non soltanto) nel Proemio: J. Canning, The political thought of Baldus de Ubaldis, Cambridge, Cambridge Univ. Press, (1987), 20033, pp. 68-70; K. Pennington, The Prince and the law 1220-1660. Sovereignty and Rights in the Western Legal Tradition, Berkeley, Univ. of California Press, 1993, pp. 112-113; J.-P. Boyer, Un cours magistral du roi Robert de Sicile-Naples. Lois, théologie et métaphysique, in corso di pubblicazione.
108 G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 51s (anche se è insufficiente il cenno proprio all’Isernia).
109 Il brano, più volte notato, ed anche frainteso, è nel commento alla const. I 94 (= 97 ed. Cervone) Ab officialibus (ed. Cervone p. 161b); ma Andrea parla dell’«error Martini» anche nel commento alla const.III 8 Si dubitatio (ed. Cervone p. 309a).
110 Andrea d’Isernia, Prooemium super constitutionibus Regni, pp. XVII-XXXII: XXIXa (ed. Cervone).
111 Due interpolazioni nel testo del Proemio sono state sospettate (con un ambiguo richiamo a un manoscritto napoletano), da B. Capasso, Sulla storia esterna p. 80 nt. 4; in particolare nel brano riportato sopra ‘decessit’ starebbe per ‘vixit’, ma sul ben discutibile presupposto che il proemio, proprio perché tale, per cronologia compositiva precede necessariamente il commento, e sarebbe dunque necessario ipotizzare un’interpolazione, perché altrimenti dovrebbe essere datato a dopo il 17.VII.1316 (il che non si combina, indubbiamente, con la data di morte di Andrea); lo segue L. Palumbo, Andrea d’Isernia, pp. 114-115.
112 Su questo percorso rinvio, perché pienamente affidabile, a quanto in R. Delle Donne, Burocrazia e fisco a Napoli tra XV e XVI secolo. La Camera della Sommaria e il Repertorium alphabeticum solutionum fiscalium Regni Siciliae Cisfretanae, Firenze, Firenze University Press, 2012, pp. 37-74.
113 ? Ritus Regiae Camerae Summariae Regni Neapolis. L’uso di questa edizione è complesso. Il curatore secentesco è C. N. Pisano, che offre per ogni titolo in cui è suddivisa la consolidazione, delle lunghe additiones al commento di Goffredo, riconoscibili perché firmate e stampate in corpo grande, e precedute da un sommario e suddivise in paragrafi numerati in cifra araba progressiva. Il commento ai riti del de Gaeta (notevole anche per alcune riflessioni su Andrea) è riconoscibile perché stampato in corpo medio, e presente in ogni titolo della raccolta, preceduto da un sommario e suddiviso in paragrafi numerati anch’essi in cifra araba; non ha firme, ed è redatto dopo il 1452 (pp. 300b, 453a). Infine il tardo e documentatissimo glossatore è stampato in corpo minimo, presente in molti titoli con glosse al testo dei riti evidenziate da lettere in ordine alfabetico e maiuscole; scrive nel 1568 (p.10: «hodie 10 martii 1568») ma sono presenti anche date più tarde: 1572 (p. 127b), forse 1579 (p.463b: un’edizione di Livio al 1679, forse per 1579); parrebbe di Salerno e consanguineo di un ‘Francisco Thebano’ (p.80a lett. I). Infine il testo dei riti ogni tanto presenta glosse precedute da asterico, in genere con brevi rinvii a leggi e testi prescrittivi, che sono forse le glosse più antiche, ma di paternità incerta.
114 E. Sthamer, Studien über die sizilischen Register Friedrichs II, pp. 113-131; con frutto anche da riflessioni di Huillard- Bréholles.
115 G. M. Monti, Sul testo dei ‘Riti’ pp.257, 259-261; anche E. Sthamer, Studien über die sizilischen Register Friedrichs II, pp. 113-131.
116 E. Sthamer, Das Amtsbuch des Sizilischen Rechnungshofes, a c. di W.E. Heupel, Burg bei Magdeburg, Hopfer, 1942, pp.128-130; e pp.112-131 sul della Marra. R. Delle Donne, Burocrazia e fisco, pp. 71-73.
117 Luca da Penne, Commentaria; in Cod. 10, 3, 4 Si tempora nr. 29 p. 30a.
118 Nei capitula per i Secreti a credenza del Regno di 1.XII 1283, lo Sthamer, Das Amtsbuch, p.208 § (I)5 nota che le attività di questi officiali dovevano svolgersi in modo che «de ritu dohane non discrepent».
119 B. Capasso, Sulla storia esterna p. 85 nt.1. Concorda G.M. Monti Sul testo dei ‘Riti’ p. 264.
120 Già G. M. Monti, Sul testo dei ‘Riti’ pp.259, 290-291, e altri prima di lui, sapevano che il testo della consolidazione offriva materiali successivi alla morte di Isernia.
121 R. Delle Donne, Burocrazia e fisco, pp. 69-71.
122 P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, vol. IV pp. 402-410 [lib.XXII, 6]; L. Palumbo, Andrea d’Isernia pp. 115-117, 221-242; G. M. Monti, Sul testo dei ‘Riti’ pp. 253-291. Invece sulla ricostruzione storica della Camera della Sommaria fatta dal Giannone, sulle sue fonti (il di Costanzo) e incidenza successiva: R. Delle Donne, Burocrazia e fisco, pp. 39-49.
123 Ritus Regiae Camerae Summariae: rub. 5 (de iure dohanae), rit.6 (Caveat tamen) p. 306a. Questo rinvio (posto in una glossa preceduta da asterisco) fu già notato da Matteo d’Afflitto nella sua opera feudale [p. 46b], e da qui nel Liparulo c. [1v] (ed. 1571), che forzando quel che dice d’Afflitto fa d’Isernia un commentatore dei riti, mentre Matteo rinvia solo al testo del rito (basta leggerlo), certo pensando che fosse opera (per consolidamento o forse per dottrina) d’Isernia e attribuendogli la glossa. Il fatto che Isernia glossasse i riti, non prova necessariamente che la consolidazione gli preesistesse. La notizia del Liparulo è divenuta patrimonio comune dei successivi autori.
124 Così l’Isernia in L.F. II, 55 (56 Quae sunt regalia) nr. 28 c. 297rb e il Liparulo c.[1v] (ed. 1571).
125 Andrea d’Isernia nel commento alle const. I, 7 Quanto ceteris pp. 19-20 e const. I, 89 (=91 ed. Cervone) Magistros p. 155 (ed. Cervone) e Ritus Regiae Camerae Summariae rub. 30 (de decimis) rit. 1 (Et quia) p. 568. Per associazione d’idee ricordo che nella sua decisio 384 nr. 10 (di qualunque edizione), Matteo d’Afflitto, che fu magistrato in Sommaria cita una «declarationem antiquam Regiae Camerae positam in registrum rituum eiusdem Camere».
126 La volontà è del glossatore tardo (Ritus Regiae Camerae Summariae p. 9 gl. B) che indica i diversi luoghi dove Isernia parla dei riti, e in particolare in L.F. II, 55 (56 Quae sunt regalia) § vectigalia nr. 14 (in additio) c. 288rb: qui in effetti Andrea rinvia, senza riportarlo, al rito 18 Solvitur e al rito 20 Item de operibus § Sed earum (rubr.2 de iure fundici nei Ritus pp.131,133b). La frase del glossatore è però ambigua e potrebbe anche intendersi non come se Andrea trascrivesse alla lettera il testo del rito 18 nel suo commento, ma come se descrivesse il manoscritto in uso, «cuius verba [del rito] sunt manuscriptae per eundem Andream». Il de Gaeta commenta (nei Ritus p. 92 nr.60-65) il luogo indicato di Isernia, ed è forse il primo autore regnicolo a dire di lui che «loquitur intricate».
127 Come ho detto, solo una glossa o nota (forse) di Andrea ad un rito rinvia al suo commento feudale (sopra alla nt. 123).
128 Così L. Palumbo, Andrea d’Isernia, p. 116; fino al Calasso e ad altri.
129 G. M. Monti, Sul testo dei ‘Riti’ p. 263.
130 Ritus Regiae Camerae Summariae: rub. 30 (Non licet Gabellotis) rit. 2 (Hoc habuit) p. 565. Il brano fu notato già da Camillo Salerno nel 1567.
131 Isernia in L.F. II 24 (Quae sit prima causa..) nr. 27 c.132vb in fine. Aggiungo che, per congettura (ardita) del Liparulo, l’Isernia citerebbe con plauso una quaestio del Belviso in L.F. II 2 Quid sit investitura nr. 4, gl. f. Peritos c. 80ra (ed. 1571).
132 Una articolata bibliografia sul de Ferrières (che sarebbe morto a 8.XI.1307 per data tradizionale) in D. Maffei, Giuristi medievali p. 7 nt. 19. Secondo Th. Pécout, Les évêques de Provence pp. 226-227, Pierre sarebbe morto nel 1308 e la sua residenza in Provenza sarebbe stata essenziale per lo svolgimento delle funzioni, in particolare di arcivescovo di Arles (dal 1304), v. però E. Cortese, Legisti, canonisti e feudisti p.273. Il brano romanistico d’Isernia con la citazione di Guido da Suzzara si legge in Iuris Interpretes saec. XIII, p. 231.
133 ? Chi non potesse far uso della edizione del 1571, per ritrovare il punto preciso della citazione dovrà, ovviamente, servirsi dell’elenco del Liparulo presente in ogni edizione dell’opera feudale d’Isernia commentata da lui: Vita Andreae Iserniensis..ex..eius dictis (c.[1v] ed. 1571). B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus pp. 35b-36a ripete l’elenco del Liparulo.
134 Così nell’ed. 1571 c. 297rb in fine. Il Liparulo nell’elenco afferma che Isernia avrebbe scritto su tutto il titolo di Dig. 49,14 de iure fisci.
135 ? Così nell’ed. 1571 c. 311va. Il Liparulo nell’elenco afferma che Isernia avrebbe scritto su tutto il titolo di Dig.50, 17 de regulis iuris. Si conosce poi almeno un manoscritto madrileno, censito da G. Dolezalek (Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, vol. III, Frankfurt am Main, Max Planck Institut für Europäische Rechtsgeschichte, 1972, ad indicem) che assegna con dubbio all’Isernia un Apparatus de regulis iuris.
136 ? Nell’elenco delle opere d’Isernia il Liparulo (c.[1v] ed. 1571) indica che la citazione sarebbe nel commento a L.F. II, 55 (56 Quae sunt regalia) nr. 28, ma io non ne trovo traccia. Invece è certo che Isernia non citi un suo lavoro su Dig. 1,1, 9 Omnes populi come afferma erroneamente il Liparulo nello stesso elenco; infatti nel luogo indicato (c.78vb, ed. 1571) Isernia rinvia non al Digesto, ma al suo commento in L.F. I 21 Quo tempore miles, come dimostrano le notule ‘t’ e ‘s’ dello stesso Liparulo (c.78vb).
137 Così nell’ed. 1571 c. 132vb in fine. Il Liparulo nell’elenco afferma che Isernia avrebbe scritto su tutto il titolo di Cod. 3, 31 de petitione hereditatis.
138 Il Liparulo, nell’elenco, riporta tale indicazione da Luca da Penne, Commentaria, p. 122a nr. 4 (in Cod. 10, 28, 1 Dispositionem).
139 Iuris Interpretes saec. XIII, pp. 229-233: 231-233.
140 Singularia doctorum, vol. II, cc. 185r-185v.
141 Bono, Glossa aurea, pp.426-465 (qui la raccolta dei singularia che sarebbero 151 stando al titolo del volume).
142 Bono, Glossa aurea p. 448b ‘Vel potest dici’ (Dig. 19, 1, 11, 8, Idem Neratius). Invece tra i ‘singularia do. Andreae de Ysenia’, fa unica attestazione il nr. I (‘Nota argumentum in lege Celsus’) c. 185ra.
143 Bono, Glossa aurea pp.455b, 456a. E. Cortese, Scienza giuridica, Regno di Sicilia p. 640. In realtà non è del tutto chiaro se il manoscritto o ‘libro’ fosse in uso del Bono oppure, ed è più probabile, del ‘Bacca’. Se poi ‘Io. Bacca’ fosse quel Giovanni Vacca (?) che sappiamo coetaneo di Francesco da Telese (terz’ultimo decennio dal Duecento), allora aggiungerei che in ASN, dagli spogli del Sicola, si sa di uno «iudex Leonardus de Isernia dominus iuris quartucci de Isernia» (Repertorium C3 c. 314r [da Reg. 1305-1306D c.195r]).
144 D. A. De Marinis, Iuris Allegationes insignium Jurisconsultorum (Operis tomus III), Venetiis, apud N. Pezzana, 1731, pp. 590-592. Gli incipit sono: ‘Nota hic questionem’ (p. 590ab); ‘Consuevit dubitari’ (pp. 590b-591a); ‘Quaeri consuevit’ (p. 592a); ‘Sed quid erit’ (p. 592b).
145 Donato Antonio De Marinis, Iuris Allegationes insignium Jurisconsultorum, p. 592a (‘Quaeri consuevit’).
146 G. D’Amelio, Quaestiones di giuristi napoletani in due manoscritti vaticani… in Studi sulle quaestiones civilistiche disputate nelle università medievali, Catania, Tringale, 1980, pp. 7-56: 17-18.
147 ? E. Cortese, Nicolaus de Ursone de Salerno in Per F. Calasso. Studi degli allievi, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 191- 284: 225s., e in particolare 227 nt. 89. E, in sintesi, Cortese, Scienza giuridica, Regno di Sicilia (vol. II) p. 640.
148 ? E. Cortese, Nicolaus de Ursone de Salerno pp. 229 nt.94, 266-267 (dal ms. vaticano Arch. San Pietro A.33 cc.269rab).
149 ? Commentando la const. I 28 Si dampna di Federico II (ed. Cervone p.71a), ben noto, ad esempio a C. Pecchia, Storia civile e politica, vol. I p. 252 (lib. II, cap. XIII).
150 ? Lo dimostra E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli tra Quattro e Cinquecento, p. 119.
151 ? G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften, ad indicem. Indico qualche altro spoglio negli scritti di G. D’Amelio Indagini sulla transazione nella dottrina giuridica intermedia con un’appendice sulla scuola di Napoli, Milano, Giuffrè, 1972, pp. 154-156, e Quaestiones di giuristi napoletani pp.9-23.
152 ? Biagio da Morcone, De differentiis inter ius longobardorum et ius romanorum tractatus, cur. G. Abignente, Neapoli typ. Al. Pierro, 1912, p. XI etc.
153 ? Nel commento al Proemio di Carlo II alle Consuetudines Neapolitanae, § in stilo dictaminis col.145 (ed. Cervone 1775). Il brano è notato già da B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus p. 36a, che conosce, ai suoi tempi, degli esemplari manoscritti.
154 ? Matteo d’Afflitto, Super III Feudorum libris Commentaria, Francofurti, apud A. Wecheli heredes, 1598, in L.F. I,1 (de his qui feudum dare possunt) § Et quia vasallus nr. 21, p. 24b. Sospetta la vera paternità dell’opera, non accolta dalla titubanza del Volpicella (1872, p. 61) già B. Capasso, Sulla storia esterna p. 80 nt. 1.
155 ? Iuris Interpretes saec. XIII, p. 230.
156 ? La edizione del 1506 dà il titolo di «libellus seu repertorium»: Zecchino, Le edizioni p. 36. Bisognerà vedere se questo repertorio (del quale si conoscono due diverse edizioni incunabole a Napoli nel 1472 e nel 1479, la prima del Riessinger) corrisponda, e quanto, al ms. Ott. lat.2311 della Vaticana, cioè un Petri Follerii Repertorium regularum Andreae de Isernia, che, l’ha dimostrato Monti (Sul testo dei ‘Riti’ pp. 266-267), non ha a base una perduta opera di Isernia, come hanno pensato il Capasso e il Palumbo, ma è un repertorio ‘diviso per materia’ e ‘in ordine alfabetico’ tratto dalle opere note di Andrea.
157 ? Sfiorano la questione B. Chioccarello, De illustribus scriptoribus p. 35a; e B. Capasso, Sulla storia esterna p. 81.
158 ? Liparulo nell’elenco delle opere d’Isernia (c.[1v] ed. 1571); la notizia è ripresa anche dal Chioccarello, De illustribus scriptoribus p. 35b. Si legga quanto alla nota 123.
159 ? Così il Giustiniani (vol. II p.168) ricorda che Valentin Forster (De Historia Iuris Civilis Romani libri tres, Basileae, per Io. Oporinum, 1565, p. 240) assegna all’Isernia un «de iure protomyseos et iure congrui». Invece il Chioccarello (p. 36 b) afferma che Johann Fichard avrebbe attribuito a Andrea d’Isernia un commento alla const. Ad reprimendum (1313) dell’imperatore Enrico VII, ma è un errore nell’errore perché il Fichard (Vitae recentiorum iureconsultorum, Patavii, apud Iac. Iordanum, 1565, c. 25r) non assegna all’Isernia nulla di simile.
160 ? Faccio l’esempio di G.A. Lanario, Repetitiones feudales, Neapoli, apud Lazarum Scorigium, 1630, p. 365 nr.77-78, e all’indice s.v. ‘Liparulus’.
161 ? Ad es. G. Vallone, Iurisdictio domini p.156 nt. 107.
162 ? Andrea d’Isernia in L.F. II, 54 (55 De prohibita feudi alienatione per Fredericum) nr. 71 c. 277rb (ed. 1571).
163 ? B. Camerario, Repetitio legis Imperialem de prohibita feudi alienationem per Federicum, Romae apud Hipp. Salvianum, 1558, c. XCVIII rb H (§ Praeterea ducatus).
164 ? Così il Camerario in un responsum di ambito siciliano edito postumo una prima volta nel 1576, e che si legge più comodamente nelle sue Repetitiones feudales, pp. 209-236: 218b, 230b. Tutti i brani di Camerario che ho citato sono indicati dal Chioccarello, De illustribus scriptoribus pp. 89a-92a: 91a, 92a; e dal Chioccarello li riprende il Giustiniani.
165 ? Ciarlanti, Memorie historiche p. 331; G. Vallone, Iurisdictio domini p. 123.
166 ? Summa Odofredi Bononiensis in usus feudorum refertissimis domini Francisci Liparuli Partenopaei Iureconsulti clarissimi explicationibus nunc primum restituta… Compluti [Madrid], excud. Quirinus Gerardus, 1584, c. 1v.
167 ? Il Liparulo nella glossa ‘b’ ai Praeludia d’Isernia (c. 2ra ed. 1571) rinvia al brano, che ho indicato, del 1558, dove il Camerario ricorda il suo lavoro su Isernia, senza alcun commento.
168 ? B. Camerario, Repetitiones feudales pp. 150b, 218b.
169 ? Andrea d’Isernia in L.F. II 50 (De natura successionis feudi) nr. 8 cc. 220rb-220v (ed. 1571[ed. 1598 pp. 558s]). Si confronti anche la glossa ‘n’ di Liparulo (c. 220rb) e Camerario Repetitiones feudales pp. 220-221.
170 ? Tra i difetti di questa importante edizione segnalo un salto nella numerazione delle pagine: si passa dalla carta 288 alla carta 295, ma senza sacrificio di testo.
171 ? B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae a Martino V ad Clementem XI, Città del Vaticano, Bibl. Ap. Vaticana, 1931, p. 292.
172 ? Il lunghissimo titolo, che indico integralmente per sollecitare riscontri, inizia con Andreae Iserniensis in Usus Feudorum Commentaria ab hinc duo et sexaginta annis Nardi Liparoli...acutissimis explicationibus glossisque perpetuis illustrata et nunc per Alexandrum Liparolum...expurgata etc...[Roma?].